Highway 61 Revisited

 

Pochi artisti orbitanti nello spazio aereo e fisico della musica rock, hanno suscitato tante parole, polemiche, ovazioni, fraintendimenti, interpretazioni; pochi artisti hanno saputo incarnare con le proprie opere l’immaginario politico della propria epoca. Bob Dylan incide e suona dal vivo da quasi quarantacinque anni, è autore di alcune pagine imprescindibili della musica popolare del secolo scorso e non sembra aver voglia di mollare nemmeno in questo millennio. Il suo “Love and theft” del 2001 fu a tratti davvero inquietante per molti: pubblicato l’11 settembre di quell’anno, una data che si ricorderà per ben altri motivi, l’album, intriso come sempre del catastrofismo apocalittico tipico dell’autore dall’epoca della sua conversione religiosa, sembra quasi una profezia sugli avvenimenti di quel giorno maledetto. Il Dylan autore epocale, però, è rintracciabile nei primi quattro anni di carriera, dall’esordio omonimo del 1962 sino al doppio “Blonde on blonde” del 1966: sette album di un percorso che terminerà con quello schianto motociclistico che, secondo alcuni autorevoli pareri, da un lato ha rischiato di toglierci l’uomo e dall’altro, dato l’esito non fatale dell’incidente, ha salvato sia l’uomo che l’artista, giunto ormai a un punto di non ritorno.

Partito dalla scena folk del Greenwich Village di New York, dalle canzoni contestatrici e di estrema sinistra di autori come Woody Guthrie, per il quale Dylan aveva una vera e propria venerazione, l’autore ha imboccato un percorso artistico che nel giro di pochi anni ha sconvolto e scardinato le regole dei menestrelli statunitensi. Quattro album in linea con la contestazione che faceva del Greenwich Village un ambiente compatto, con una linea lirico-musicale ben percepibile; una prima deviazione, “Bringin’ it all back home”, diviso tra acustico e una prima apparizione degli strumenti elettrici e poi il botto, costituito da un capolavoro assoluto della storia della nostra musica, “Highway 61 revisited”, rifiutato in blocco da tutti i puristi del folk acustico, incomprensibile per altri e ancora oggi, a dispetto dell’accoglienza iniziale, una pietra miliare eterna del rock.

Qualche giorno prima della pubblicazione, Dylan si presenta al maggior festival folk di quegli anni, il Newport Folk Festival, la manifestazione dove solo due anni prima era stato acclamato il re del movimento sull’onda del suo primo capolavoro, “The freewheelin’ Bob Dylan”. Tra lo sconcerto generale, Dylan sale sul palco accompagnato dalla Butterfield Blues Band: niente strumenti acustici, ma una band elettrica che all’attacco della prima canzone dovette sembrare simile a un attacco marziano. La contestazione è totale, tanto che un guru del movimento folk, compagno di tante battaglie accanto a Woody Guthrie, un furioso Pete Seeger, tenta di staccare i collegamenti elettrici degli strumenti. Ricordo il racconto di un Dylan, allora ventitreenne o giù di lì, che abbandona il palco piangente (un racconto, forse, di Joe Boyd, letto tanti e tanti anni fa). Le contestazioni si ripeteranno durante l’intero tour, accompagnato dalla band che lo seguirà a lungo in quegli anni, i canadesi Hawks, che poi muteranno ragione sociale, in quegli anni di invasione del Vietnam, in The Band (per non confondersi con i “falchi” guerrafondai). Alla ricerca di un sostituto, i canadesi scelsero il nome con il quale erano conosciuti da tutti: la band che accompagna Dylan. Il batterista degli Hawks, Levon Helm, talentuoso compositore e cantante, oltre che motore ritmico, giungerà ad abbandonare i compagni, stanco delle contestazioni che si ripetevano ad ogni concerto. È forse difficile immaginare al giorno d’oggi quale fosse l’effetto sulle platee di quella che possiamo immaginare come un’autentica rivoluzione nell’inamidato ambiente della scena folk dell’epoca.

Bob Dylan, come forse molti sapranno, è un testardo come pochi. Dall’alto della sua arte inimitabile, non ha mai concesso nulla all’ordinario, se non per pigrizia (insofferente verso le sale di registrazione, Dylan ha spesso pubblicato dischi frettolosi e prodotti poco e male). Dopo la contestazione epocale al Newport Folk Festival, Dylan continua le registrazioni di “Highway 61 revisited” già in corso da tempo e porta a termine un album tra i più significativi dell’intera storia del rock, a cominciare dai primi solchi: “Like a rolling stone” è un brano dalla durata inconsueta per una canzone che deve servire da apripista anche come 45 giri, sei minuti. Come racconta Paolo Vites, nel suo eccellente “Bob Dylan – 1962-2002 – 40 anni di canzoni”, quando i Doors tentarono di ripetere un’operazione simile con la loro splendida “Light my fire”, così si sentirono rispondere dai responsabili della casa discografica: “Chi credete di essere, Bob Dylan?”. “Like a rolling stone”, nelle parole dello stesso Dylan, “è un lungo pezzo di vomito”, ma nonostante questo, poco tempo fa la canzone è stata nominata per l’ennesima volta come la più importante del secolo scorso dalla rivista Rolling Stone (e non per semplice vicinanza onomastica). Una canzone che sbalordisce per la forza musicale, per le immagini poetiche (il “vomito” a cui si riferiva Dylan) e per la voce di un tizio che, secondo molti illuminati pareri, non dovrebbe cantare. Le riflessioni di Dylan sembrano riferirsi al suo magico momento artistico (un tour inglese precedente alle registrazioni che si è trasformato in un tripudio di folla e ovazioni, con scene da autentica beatlemania) e al rischio di cadere in un’idolatria fine a sé stessa:

“Come ci si sente
a contare solo su sé stessi
senza un posto dove andare
come una completa sconosciuta
come una pietra che rotola?”

“Like a rolling stone” è un capolavoro assoluto e non è il solo dell’album, come si sarà capito dall’introduzione. Diamo un’occhiata alla data di pubblicazione: 30 agosto 1965. In quel periodo, nel magico mondo musicale del rock, impazzavano i gruppi inglesi formato da ragazzi completamente rapiti dalla forza della musica nera statunitense. Solo per fare qualche nome, nel 1965 uscivano “Rubber soul” dei Beatles (l’album che inizia la vera scalata artistica dei quattro di Liverpool), “Mr. Tambourine man” dei Byrds (la risposta californiana ai Beatles: title-track e altre tre canzoni sono firmate Bob Dylan), “Kinda Kinks” dei Kinks, “December’s children” dei Rolling Stones, “My generation” degli Who e “Five live” degli Yardbirds. A parte la particolarità musicale dei Beatles (e dei loro contraltari californiani, i Byrds), tutti gruppi impegnati a reinterpretare il blues e il rhythm’n’blues. Bob Dylan, come luogo comune insegna, era partito dal folk acustico di protesta. I luoghi comuni sono fatti per essere scardinati e Dylan, con tutto l’album e soprattutto con la dinamitarda “Tombstone blues”, supera i colleghi inglesi di quell’anno a destra, a sinistra e al centro. Non posso negare la sorpresa che mi fece rimanere a bocca aperta quando ascoltai questo pezzo la prima volta: blues accelerato a mille, la chitarra fantastica di Mike Bloomfield e una sezione ritmica (basso, batteria e chitarra acustica) che assomiglia a un connubio impossibile tra punk, jazz e hard-rock. Aggiungiamoci la voce perfetta di Bob Dylan e avremo uno di quei pezzi che i ragazzi inglesi di cui si parlava, impareranno a memoria, anche se l’artista in questo caso è pallido e non vive sulle rive del Mississippi:

“Mamma è in fabbrica senza scarpe

Babbo è nel vicolo a cercare il fusibile

Io sono in strada a cercare il blues della pietra tombale”.

“It takes a lot to laugh, it takes a train to cry” è una bella canzone e non è un capolavoro e questa è già una notizia. L’influenza chiaramente percepibile è quella di artisti del calibro di Chuck Berry, che fu fra i primi a mischiare il blues delle proprie origini con il country di colore bianco. Il pezzo piace per l’aria quasi da saloon (il piano che picchietta) e per l’armonica onnipresente.

“Vorrei essere il tuo ragazzo, baby
non voglio essere il tuo capo
Non venirmi a dire che non ti ho avvisato
quando avrai perso il tuo treno”.

“From a Buick 6” la conobbi per merito di un album di Gary US Bonds, un rocker nero resuscitato, all’inizio degli anni ’80, per merito di Bruce Springsteen e Miami Steve Van Zandt. La versione originale di “Highway 61 revisited” sembra sia nata da un classico del blues, “Milk cow blues”, che io posseggo in una versione dei Kinks, ma che non riesco a collegare pienamente alla canzone di Dylan. Sicuro, le dodici battute del blues sono sempre le stesse, ma “From a Buick 6” ha dalla sua un giro di basso assolutamente ipnotizzante. L’organo Hammond di Al Kooper, la chitarra che ricama e l’armonica che cuce ritornelli e strofe: sì, è un capolavoro anche questo. Nel testo, Dylan cita direttamente un grandissimo rocker nero, inventore di uno dei ritmi eterni del rock’n’roll:

“Beh, lei non mi rende nervoso, non mi parla molto
Cammina come Bo Diddley e non ha bisogno di una stampella
Tiene questa quattro-dieci carica di piombo”.

Il finale di facciata è affidato, come sorprendersi, a uno dei capolavori assoluti dell’uomo del Minnesota. “Ballad of a thin man” è talmente bella, struggente, forte e geniale da far quasi commuovere anche un omone barbuto e padano. Il blues strizzato e trasformato in poesia bianca malata e malsana, con una prestazione vocale di Bob Dylan al di là delle definizioni. Il piano che domina la canzone è dello stesso Dylan, mentre l’hammond spettacolare, come in tutto l’album, è del “solito” Al Kooper. Lenta, drammatica, angosciante, “Ballad of a thin man” è una canzone sulla schizofrenia dell’animo e sull’incomprensibilità dei mondi, quello fisico e quello spirituale. Alla fine delle singole strofe della ballata, Dylan nomina un personaggio:

“Perché sta succedendo qualcosa
e tu non sai cos’è
Vero Mister Jones?”.

I dylanologi di professione si sono scervellati per cercare di capire se questo Mister Jones fosse una persona reale. Nel mio piccolo (microscopico), non posso non notare, come ho già affermato parlando di schizofrenia, che “Ballad of a thin man” sembra parlare dello stesso Dylan come essere umano rappresentante degli Stati Uniti di allora, un paese che stava conoscendo le contestazioni giovanili che sarebbero poi dilagate in tutto il mondo. Più volte Bob Dylan ha rifiutato il ruolo di rappresentante della canzone di protesta: come non leggere in quella frase di fine strofa lo smarrimento dell’autore stesso verso un ruolo che non sentiva appartenergli?

Le strofe vedono un Dylan cantante che parte da toni alti che via via si abbassano sempre più, sino alla domanda rivolta al fantomatico Mister Jones, dove le corde vocali sembrano sprofondare in un pozzo oscuro e malsano. Tra i capolavori dell’album e dell’intera carriera di Dylan, un capolavoro assoluto.

Girato il vinile, ci s’imbatte in una delle canzoni più famose del poeta di Duluth, “Queen Jane approximately”, ennesima dimostrazione della grandezza di quest’uomo. Come definire la progressione musicale, un modello ripreso da centinaia (migliaia?) di artisti da allora fino ai nostri giorni? Sembrerebbe un semplice brano-ballata, ma un artista in tale stato di grazia, riesce a ridefinire anche le banalità più semplici e a prima vista comuni. Come definire il testo, una serie di mini-racconti che si concludono con la frase: “Verrai da me Queen Jane?”? Pessimista, ancora una volta, nel raccontare un mondo che non sembra possedere alcuna qualità degna di nota e allo stesso tempo, ottimista, dal punto di vista di quell’invito rivolto alla fine di ogni strofa. Sembra quasi un anticipo di quell’immagine di speranza che un Bruce Springsteen di qualche anno più tardi racconterà nella sua “Two hearts”: per combattere tutte le brutture, due cuori sono meglio di uno. Per inciso, se non lo si fosse capito, “Queen Jane approximately” è l’ennesimo capolavoro.

La canzone che titola l’intero album, è quasi spiazzante. Contornata di suoni strazianti e stridenti, che dovrebbero essere sirene della polizia, a quanto ho letto (ma, sinceramente, è difficile capirlo), “Highway 61 revisited” riprende a tratti la melodia di “From a Buick 6” ed è un blues accelerato dove sembrerebbe l’organo Hammond a farla da padrone, non fosse per un elemento: la voce di Dylan. Coloro che ancora oggi provano ribrezzo nel sentire le tutt’altro che ortodosse prestazioni vocali di Dylan, potranno tornare a respirare con la successiva “Just like Tom Thumb’s blues”, una ballata bluesata dove l’autore sembra seguire a stecchetto certe regole (fino a un certo punto: sempre di Bob Dylan stiamo parlando). Per quanto mi riguarda, la canzone meno interessante dell’intero lavoro, piacevole e da ascoltare senza patemi. Torniamo a “Highway 61 revisited”, la canzone.

Indescrivibile la forza della voce che squarcia in maniera viscerale la prima strofa, dove, racconta Dylan, dio chiede ad un Abramo incredulo di uccidere il figlio in offerta sacrificale. Abramo, impaurito dalla minaccia di dio (“Puoi fare come vuoi Abe, ma la prossima volta che mi vedrai arrivare, sarà meglio che tu te ne vada di corsa”), chiede all’onnipotente: “Dove vuoi che avvenga questo omicidio?”. Notare come Dylan trasformi il sacrificio in un omicidio. Dio risponde: “Sulla Highway 61”.

L’Autostrada 61 taglia gli Stati Uniti da nord a sud, dal Minnesota, “patria” di Bob Dylan”, sino a New Orleans, raggiungendo il delta del Mississippi, il fiume dove il blues statunitense si è formato e forgiato nel tempo e nella sofferenza. Oltre ad attirarsi le ire dei puristi del folk a causa delle musiche, con questo testo Dylan-Robert Zimmerman, ebreo, scandalizzò pure gli ebrei. Le numerose strofe, compresse in un brano di poco più di tre minuti, mettono in fila una serie di dialoghi apparentemente slegati, intimamente connessi con la soluzione finale del problema, lo stesso che dio ordina ad Abramo: la Highway 61. Immagini raccontate con una forza sbalorditiva in sette, otto righe, la capacità di creare un mondo sulla via dello sfacelo, il nostro per inciso, con le parole, la violenza della voce e quei suoni che dovrebbero essere sirene della polizia. L’ho pensato in questo momento, ascoltando per l’ennesima volta la canzone: la potenza della voce di Dylan mi ha ricordato un pischello che dodici anni dopo sputerà il suo rifiuto anarchico nell’unico disco dei Sex Pistols. Suggestione, paragone assurdo, ma ciò che questo album ha rappresentato per la musica rock, assomiglia in tutto e per tutto alla devastazione posta in essere dal punk futuro. Un capolavoro, l’ennesimo.

Il disco termina con una lunghissima ballata, l’unico brano che potrebbe rimandare al Bob Dylan che tutti conoscevano e che quasi tutti amavano, compresi i puristi del dleng-dleng delle chitarre acustiche. “Desolation row” aveva conosciuto una versione elettrica, che non soddisfece per nulla l’autore: la versione dell’album, undici minuti di magia acustica, fu registrata alla prima prova. Secondo molti, “Desolation row” è il capolavoro assoluto dell’album, ma è solamente una questione di priorità. Gli amanti del Dylan acustico di sciolgono di fronte a una simile dimostrazione di forza compositiva e interpretativa; gli altri, tra i quali il sottoscritto, amano l’album nel suo complesso, compresa la canzone che lo chiude.

Il vicolo della desolazione accoglie una fauna umana più o meno famosa (si citano direttamente anche Einstein, T.S. Eliot, Ezra Pound, Ofelia…) che si dibatte alla ricerca di qualcosa. Il vicolo della desolazione ricorda le backstreets del Bruce Springsteen di “Born to run”, anche se il Boss, in quel caso, usa meno poesia e meno metafore. Dylan costruisce una serie di quadri desolanti di una forza lirica da lasciare a bocca aperta. Negli anni ’90, manifesterà il suo stupore per essere riuscito a scrivere liriche di questo livello e di non avere la minima idea di dove possa averle scovate.

“Highway 61 revisited” non è un viaggio negli Stati Uniti delle freeway: è un album che può vantare pochi paragoni nella storia del rock, per la sua qualità, per la sua innovazione e per lo schiaffo che seppe rifilare a tutti i folkers bianchi inamidati e già chiusi nel loro circolo intellettuale. All’epoca Dylan era già il menestrello folk più importante e famoso e anche questo la dice lunga sul coraggio dell’uomo: scardinare le convenzioni non è mai facile, soprattutto se lo si fa in maniera netta come in questo caso. Come scrive Paolo Vites, “Quando Dylan e il gruppo”, al Newport Folk Festival del 1965, “attaccano una Maggie’s Farm che sentita ancor oggi suona violenta e devastante come Anarchy in the UK dei Sex Pistols dieci anni dopo, scoppia la guerra”. Nessun problema a crederlo: sono stato diretto testimone delle contestazioni al concerto di Bob Dylan di Modena, 1987, ventidue anni dopo i fatti di Newport e dopo tutta la musica passata e macinata nel frattempo. Buona parte del pubblico di Modena era convenuto per ascoltare il Dylan acustico e Bob li ha accontentati a suo modo: non un solo brano acustico! Elettricità a mille, una band fantastica ad accompagnarlo, Tom Petty e i suoi Heartbreakers e nessuna minima concessione al pubblico. Io ero praticamente in estasi e quando una parte del pubblico cominciò a tirare sassi sul palco, pensai alle storie di Newport che avevo già letto da qualche parte: se questo è l’effetto di oggi, riflettevo, pensiamo alla rivolta che l’elettricità può aver scatenato nella cattedrale del folk acustico.

Phil Ochs, cantautore talentuoso finito male e amico di Dylan, disse all’epoca di “Highway 61 revisited” che “Dylan è come l’LSD, ormai: è entrato nella psiche di troppa gente e l’America è un paese in cui molta gente non ha la psiche a posto. Ho paura per lui”.

Eric Andersen, altro folker dell’epoca, disse che Dylan “potrebbe essere la più grande influenza di tutta la generazione. Non vedo nessuna altra forza paragonabile a quella di Dylan”. Paolo Vites cita i due cantautori con una riflessione: “Gli amici/nemici della vecchia scena folk, che affannosamente hanno cercato fino a quel momento di stargli al passo, alzano bandiera bianca”. Insomma, lo straordinario Dylan folk-acustico di “The freewheelin’ Bob Dylan” poteva essere inseguito, anche se non braccato, ma il Dylan che sprofonda nella materia nera della musica, che già conosceva bene e applicava a piccole dosi precedentemente, è diventato un marziano per i più validi artisti della sua generazione. Chissà se ho reso l’idea…

Concludo con un’ennesima citazione, raccolta ancora da Paolo Vites: “La prima volta che ho sentito Bob Dylan ero in macchina con mia madre ed è arrivato quel colpo di rullante che suonava come se qualcuno avesse aperto a calci la porta della tua mente: Like a rolling stone. Mia madre, alla quale il rock’n’roll piaceva, ci pensò un minuto, poi mi guardò e disse: ‘Quel tizio non sa cantare’. Ma io sapevo che aveva torto. Rimasi lì senza dire niente, ma sapevo di star ascoltando la voce più forte che avessi mai sentito. (…) Bob ti liberava la mente come Elvis ti liberava il corpo. (…) Quando avevo quindici anni e ascoltavo Like a rolling stone, ascoltavo un tizio che aveva il fegato di prendersela col mondo intero e che mi faceva sentire come se avessi dovuto farlo anch’io”.

Ringraziato Bruce Springsteen per il contributo video (non avete visto delle immagini mentre leggevate queste parole straordinarie?), chiudo e passo ad altro.

Caio

Già pubblicato in www.ciao.it

Riferimento principale: “Bob Dylan – 1962-2002 – 40 anni di canzoni”, di Paolo Vites, con la prefazione di Elliott Murphy (Editori Riuniti, maggio 2002).