Un grazie di cuore a Fernanda Pivano, Giovanni A.Cerutti e le Edizioni Interlinea che ci hanno concesso questo saggio tratto da "De Andrè Il Corsaro" (Interlinea Edizioni - Novara)



FERNANDA PIVANO
Fratello Bob, Fratello Faber
(scritto originariamente in occasione dell'attribuzione a Dylan e De Andrè del Premio Librex-Montale nel 2001)


Che cosa posso dire di Bob Dylan e Fabrizio De Andrè che non abbia già detto in questi anni, tanti ormai,
in cui hanno occupato la mia passione, i miei sogni, la
mia speranza in un mondo limpido come la passione,
i sogni e la speranza che loro hanno regalato al pianeta?
Con poeti così non si può neanche fare delle date,
perchè sono esistiti da sempre ed esisteranno sempre.
Non ha date la proposta di gente libera, fuori dai sepolcri imbiancati, incapace di discriminazioni, con gli
occhi spalancati sulle ingiustizie del mondo, con ironia bruciante per i falsi poteri e tenerezza senza confini per le debolezze degli uomini, con inorriditi pensieri per la guerra e ostinate speranze di non violenza e
di pace, con amori incapaci di regole e inerme pazienza per disgrazie e dolori.
Sembra retorica, eppure non lo è. Il mondo di questi due poeti, fin dove si assomigliano al di là di qualsiasi definizione, è fatto anche di queste cose: denso di
un'umanità infinita quello di Fabrizio, sofferto di disperata sfiducia quello di Dylan; appoggiato su una
speranza continuamente tradita quello di Fabrizio,
affondato nella frustrazione di conversioni anche contraddittorie quello di Dylan. Realtà insidiosa per la
purezza degli uomini quella di Fabrizio, lacrime solitarie ignare di figli e di amanti quella di Dylan.
Una cosa sicuramente hanno in comune: una specie di spavento, o forse di pudore, per cerimonie come
questa, una specie di incredulità per lodi alle quali
non hanno creduto, un'infinita umiltà, comune ai
grandissimi artisti, ai grandissimi poeti, di fronte a
quella che hanno creduto la loro impossibilità a trasmettere messaggi; in comune hanno anche l'ironia, a
volte beffarda a volte pietosa, con cui mascherano la loro umiltà.
Mi vergogno un po' di questo tentativo di fissarli
nel loro splendore di farfalle inafferrabili. Mi vergogno perchè l'unico modo di riuscire a definirli è di
leggere uno qualsiasi dei loro versi, di fermare il tempo intorno alle idee come loro hanno saputo fare e in
quelle idee contemplare la realtà che ci hanno suggerito o proposto o vissuto.
Si sono conosciuti bene, hanno ascoltato le loro
canzoni, hanno letto i loro versi. Una volta Dylan ha
chiesto a Fabrizio di suonare con lui e Fabrizio non ha
voluto farlo, forse per la stessa ragione per cui a suo
tempo non ha voluto incontrare Brassens; sarebbe
bello credere che si incontrino un giorno negli enormi
spazi profumati dell'eternità e conoscano finalmente
la realtà inafferrabile che hanno inseguito, forse sfiorandola appena, giusto abbastanza da illudersi di poter continuare a inseguirla.
La loro è una realtà fatta di cose semplici, di tutti i
giorni, di rispetto per l'amore e la morte, di orrore per
l'ipocrisia e la violenza. Per Dylan la realtà soffia nel
vento, si perde nell'alba jingle jangle, si smarrisce negli
occhi azzurri di un figlio andato lontano; per Fabrizio
quella stessa realtà si nasconde nel mare, dove si cerca
di fuggire seguendo i pirati, si nasconde nei vicoli della città vecchia a via del Campo, si nasconde nel fiume
con i lucci argentati ma senza i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente, nel tentativo ininterrotto del poeta di consegnare alla morte una goccia di
splendore, di umanità, di verità.
È troppo evidente perchè se ne debba parlare l'attenzione bruciante che Dylan e De Andrè hanno avuto in comune per la marijuana, la passione che in quegli anni ha colpito l'immaginario collettivo dei giovani.
In Dylan il tema ricorre spesso, ma si può esemplificare con il famosissimo Mr. Tambourine (1965), che
in quegli anni era diventato una specie di inno nazionale dei giovani.
Mr. Tambourine era l'immagine che ricorreva su una marca di cartine da sigaretta, quella
più in voga tra i ragazzi per prepararsi i joints; e i ragazzi della canzone sono quelli smarriti di quegli anni,
che «non hanno un posto dove andare», «non hanno nessuno da incontrare» e nel «turbine della magica
nave della droga», che non è ostacolata da altra barriera che il cielo, e «nella nebbia delle rovine del tempo», permette di «dimenticare l'oggi fino a domani».
Anche in Fabrizio il tema della droga è ricorrente:
nel Cantico dei drogati (1968) il ritornello ripete quattro volte: «Come potrò dire a mia madre che ho paura?».
Il drogato (ma pare, al di là della marijuana, già
vittima di una droga pesante) striscia verso i fantasmi
«di questo osceno giuoco», sogna «il vento tra le foglie» che sussurra i silenzi della sera, si chiede «chi / e
perchè mi ha messo al mondo / dove vivo la mia morte / con un anticipo tremendo», e invita chi lo ascolta
a insegnargli «un alfabeto che sia / differente da quello / della mia vigliaccheria». In Fabrizio l'immaginario
collettivo non è più colpito da un fenomeno di costume, ma da un problema morale, con lo spettro della
morte incombente, la nostalgia della natura e della sua
dolcezza, la vergogna per la propria debolezza.
L'analogia della droga non è l'unica tra i due poeti.
Ricorre in Dylan come in Fabrizio l'orrore della violenza.
Blowin' in the Wind (1963), si sa, è stato composto
in dieci minuti in un caffè di New York ed è diventato
l'inno dei diritti civili del Sud a un'adunata nel Mississippi alla quale Dylan è stato portato senza conoscere
ancora di persona il problema del Sud. È tuttora considerato un canto di protesta, ed è tuttora la sua canzone più famosa: ormai Dylan si è rassegnato a usarla
per chiudere i suoi concerti, anche se ne cambia ogni
volta le parole. Le parole originarie dicevano per
esempio: «Quante volte devono volare le palle dei can-
noni / prima che siano proibite per sempre», e poi:
«Sì, e quante volte può un uomo girare la testa / e far
finta di non vedere», e «Sì, e quante morti ci vorranno
prima che sappia / che troppa gente è morta».
Domande terribili, seguite da una risposta almeno altrettanto terribile: «La risposta soffia nel vento».
La guerra di Piero (1964) non è meno terribile, ma
ancora una volta è intrisa dell'umanità che non ha mai
lasciato Fabrizio. Il giovanissimo Piero, ucciso da un
uomo che aveva "la divisa di un altro colore", va triste
verso l'inferno, «in un bel giorno di primavera», e viene ucciso per aver aspettato a difendersi di «vedere gli
occhi di un uomo che muore»; viene ucciso «senza un
lamento» e si accorge che il tempo non «sarebbe ba-
stato / a chieder perdono per ogni peccato». Così dor-
me «sepolto in un campo di grano», vegliato da «mil-
le papaveri rossi», in un trionfo della natura, che forse
Fabrizio amava sopra ogni cosa. Di nuovo è il tema
della guerra ad accomunare i due poeti in Masters of
War (1963) e La ballata dell'eroe (1961).
A ispirare la poesia di Dylan è un risentimento privo di pietà. I padroni della guerra costruiscono i grossi cannoni, gli aeroplani di morte, tutte le bombe, ma
si nascondono dietro le pareti, dietro le scrivanie, e
hanno sempre costruito soltanto per distruggere; si
nascondono in casa mentre il sangue dei giovani sgorga dai loro corpi e finisce nel fango: neanche Gesù
potrà perdonare quello che fanno.
A ispirare la poesia di Fabrizio sono invece la disperazione e la pietà: «Ora che è morto la Patria si
gloria / d'un altro eroe alla memoria. / Ma lei che lo
amava / [...] / d'un eroe morto che ne farà? / Se ac-
canto, nel letto, le è rimasta la gloria / d'una medaglia
alla memoria». Uno scrittore che non ho smesso di venerare mi ha insegnato che non si scrive mai con abbastanza semplicità. Avrebbe amato la semplicità di
Fabrizio, qui più nuda di quella tentata dal minimalista Raymond Carver, nel descrivere il sopruso, l'ingiustizia, l'orrore, l'assurdità della guerra.
Con questa semplicità da grandissimo poeta, Fa-
brizio ha scritto, già vicino alla morte che lo ha rubato
troppo presto, la grande poesia Smisurata preghiera
(1996). Non oso commentarla. Dice: sullo scandalo
delle armi, sulla colonna di dolore e di fumo lasciata
dalle battaglie, la maggioranza (il branco) sta ferma a
recitare un rosario di ambizioni, di paure, di astuzie,
di superbia, mentre chi viaggia in direzione contraria
cerca di «consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità».
Con questo messaggio, forse si può dire finale, di
uno dei nostri più grandi poeti del secolo ci congedia-
mo ripetendo con lui: «Ricorda, Signore, questi servi
disubbidienti».
FERNANDA PIVANO

 

Bob Dylan e Fabrizio De Andrè


DE ANDRE' IL CORSARO
di Fernanda Pivano, Cesare G. Romana, Michele Serra
INTERLINEA EDIZIONI - Novara
Collana Alia n. 17 - 56 pagine - Euro 10 

 

CANTICO DEI DROGATI
di De Andrè/Mannerini

Ho licenziato Dio
gettato via un amore
per costruirmi il vuoto
nell'anima e nel cuore
Le parole che dico
non han più torma nè accento
si trasformano i suoni
in un sordo lamento
mentre fra gli altri nudi
io striscio verso un fuoco
che illumina i fantasmi
di questo osceno giuoco
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Chi mi riparlerà
di domani luminosi
dove i muti canteranno
e taceranno i noiosi
quando riascolterò
il vento tra le foglie
sussurrare i silenzi
che la sera raccoglie
Io che non vedo più
che folletti di vetro
che mi spiano davanti
che mi ridono dietro
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Perche non hanno fatto
delle grandi pattumiere
per i giorni già usati
per queste ed altre sere
e chi, chi sarà mai
il buttafuori del sole
chi lo spinge ogni giorno
sulla scena alle prime ore
e soprattutto chi
e perchè mi ha messo al mondo
dove vivo la mia morte
con un anticipo tremendo?
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Quando scadrà l'affitto
di questo corpo idiota
allora avrò il mio premio
come una buona nota
mi citeran di monito
a chi crede sia bello
giocherellare a palla
con il proprio cervello
cercando di lanciarlo
oltre il confine stabilito
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell'infinito
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Tu che m'ascolti insegnami
un alfabeto che sia
differente da quello
della mia vigliaccheria


SIGNOR TAMBURINO
(Mr. Tambourine Man)
parole e musica Bob Dylan

Hey! Signor Tamburino, suonami una canzone
Non ho sonno e non c'è nessun posto dove andare
Hey! Signor Tamburino, suonami una canzone
Nel mattino tintinnante ti seguirò

Anche se so che l'impero della sera si è trasformato in sabbia
Svanito dalle mie mani
resto qui cieco ma ancora insonne
la mia stanchezza mi stupisce, sono fisso sui miei piedi
non ho nessuno da incontrare
e la vecchia strada vuota è troppo morta per sognare

Hey! Signor Tamburino, suonami una canzone
Non ho sonno e non c'è nessun posto dove andare
Hey! Signor Tamburino, suonami una canzone
Nel mattino tintinnante ti seguirò

Portami in un viaggio sulla tua magica nave turbinante
i miei sensi sono spogli, le mie mani non hanno presa
le dita dei miei piedi troppo intorpidite per camminare
aspettano solo i tacchi dei miei stivali per vagabondare
Sono pronto per andare dovunque, sono pronto a svanire
nella mia parata personale, lancia il tuo incantesimo danzante,
prometto di sottopormici

Hey! Signor Tamburino, suonami una canzone
Non ho sonno e non c'è nessun posto dove andare
Hey! Signor Tamburino, suonami una canzone
Nel mattino tintinnante ti seguirò

Anche se senti ridere, ruotare, dondolare follemente attraverso il sole
ciò non è indirizzato a nessuno, semplicemente sta scappando di corsa
e tranne che il cielo non trova barriere
E se tu senti vaghe tracce di mulinelli di rime saltellanti
al tempo del tuo tamburino, non è altro che un lacero pagliaccio
Fosse per me non gli presterei alcuna intenzione, vedi bene che è solo
un'ombra quella che insegue

Hey! Signor Tamburino, suonami una canzone
Non ho sonno e non c'è nessun posto dove andare
Hey! Signor Tamburino, suonami una canzone
Nel mattino tintinnante ti seguirò

Allora fammi scomparire tra gli anelli di fumo della mia mente
giù nelle brumose rovine del tempo, lontano dalle foglie gelate
dai terrifici alberi infestati dai fantasmi, su spiagge ventose,
fuori dal corso attorcigliato del folle dolore
Sì, danzare sotto il cielo adamantino con una mano che fluttua libera
stagliata contro il mare, con intorno un cerchio di sabbia,
con i ricordi ed il destino persi nelle onde
lasciami scordare l'oggi fino a domani

Hey! Signor Tamburino, suonami una canzone
Non ho sonno e non c'è nessun posto dove andare
Hey! Signor Tamburino, suonami una canzone
Nel mattino tintinnante ti seguirò

traduzione di Michele Murino


LA BALLATA DELL'EROE
di Fabrizio De Andrè

Era partito
per fare la guerra
per dare il suo aiuto
alla sua terra
Gli avevano dato
le mostrine e le stelle
e il consiglio di vendere
cara la pelle
Ma quando gli dissero
di andare avanti
troppo lontano
si spinse a cercare
la verità
Ora che è morto la Patria si gloria
di un altro eroe alla memoria
Ma lei che lo amava
aspettava il ritorno
d'un soldato vivo
D'un eroe morto
che ne fara?
Se accanto nel letto
le è rimasta la gloria
d'una medaglia
alla memoria


SIGNORI DELLA GUERRA
(Masters of war)
parole e musica Bob Dylan

Venite signori della guerra
voi che costruite i cannoni
voi che costruite gli aeroplani di morte
voi che costruite le bombe
voi che vi nascondete dietro i muri
voi che vi nascondete dietro le scrivanie
voglio solo che sappiate
che posso vedere attraverso le vostre maschere

Voi che non avete fatto altro
se non costruire per distruggere
giocate con il mio mondo
come fosse il vostro giocattolo
mettete un fucile nella mia mano
e vi nascondete al mio sguardo
vi voltate e scappate lontano
quando volano i proiettili

Come Giuda dei tempi antichi
voi mentite e ingannate
Una guerra mondiale può essere vinta
volete che io creda
Ma io vedo attraverso i vostri occhi
e vedo attraverso il vostro cervello
così come vedo attraverso l'acqua
del mio scarico

Voi armate i grilletti
perchè altri sparino
poi vi sedete a guardare
il conto dei morti farsi più alto
Vi nascondete nei vostri palazzi
mentre il sangue di giovani
fluisce fuori dai loro corpi
ed è sepolto nel fango

Voi avete sparso la paura peggiore
che mai si possa avere
la paura di mettere figli
al mondo
Per minacciare il mio bambino
non nato e senza nome
non valete il sangue
che scorre nelle vostre vene

Cosa ne so io
per parlare quando non è il mio turno?
Potreste dire che sono giovane
potreste dire che non sono istruito
ma c'è una cosa che so
sebbene sia più giovane di voi
che nemmeno Gesù perdonerebbe mai
quello che fate

Lasciate che vi faccia una domanda
il vostro denaro è così buono
che pensate che potrà
comprarvi il perdono?
Io penso che scoprirete
quando la Morte chiederà il suo pedaggio
che tutto il denaro che avete fatto
non riscatterà la vostra anima

E spero che moriate
e che la vostra morte verrà presto
Seguirò la vostra bara
nel pomeriggio opaco
Veglierò mentre siete sepolti
nel vostro letto di morte
e resterò sulla vostra tomba
finchè sarò sicuro che siete morti

traduzione di Michele Murino


LA GUERRA DI PIERO
parole e musica Fabrizio De Andrè

Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa non è il tulipano
Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi

Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente

Così dicevi ed era d'inverno
E come gli altri verso l'inferno
Te ne vai triste come chi deve
Il vento ti sputa in faccia la neve

Fermati Piero, fermati adesso
Lascia che il vento ti passi un po' addosso
Dei morti in battaglia ti porti la voce
Chi diede la vita ebbe in cambio una croce

Ma tu non l'udisti e il tempo passava
Con le stagioni a passo di giava
Ed arrivasti a varcar la frontiera
In un bel giorno di primavera

E mentre marciavi con l'anima in spalle
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva il tuo stesso identico umore
Ma la divisa di un altro colore

Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere a terra a coprire il suo sangue

E se gli spari in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore

E mentre gli usi questa premura
Quello si volta ti vede ha paura
Ed imbracciata l'artiglieria
Non ti ricambia la cortesia

Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che il tempo non ti sarebbe bastato
A chieder perdono per ogni peccato

Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che la tua vita finiva quel giorno
E non ci sarebbe stato ritorno

Ninetta mia, crepare di maggio
Ci vuole tanto, troppo coraggio
Ninetta bella, dritto all'inferno
Avrei preferito andarci d' inverno

E mentre il grano ti stava a sentire
Dentro le mani stringevi il fucile
Dentro la bocca stringevi parole
Troppo gelate per sciogliersi al sole

Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa non è il tulipano
Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi


SOFFIA NEL VENTO
(Blowin' in the wind)
parole e musica Bob Dylan

Quante strade deve percorrere un uomo
prima che lo si possa chiamare uomo?
Sì, e quanti mari deve sorvolare una bianca colomba
prima che possa riposare nella sabbia?
Sì, e quante volte le palle di cannone dovranno volare
prima che siano per sempre bandite?
La risposta, amico, sta soffiando nel vento
La risposta sta soffiando nel vento

Quante volte un uomo deve guardare verso l'alto
prima che riesca a vedere il cielo?
Sì, e quante orecchie deve avere un uomo
prima che possa ascoltare la gente piangere?
Sì, e quante morti ci vorranno perchè egli sappia
che troppe persone sono morte?
La risposta, amico, sta soffiando nel vento
La risposta sta soffiando nel vento

Quanti anni può esistere una montagna
prima di essere lavata dal mare?
Sì, e quanti anni la gente deve vivere
prima che possa essere finalmente libera?
Sì, e quante volte un uomo può voltare la testa
fingendo di non vedere?
La risposta, amico, sta soffiando nel vento
La risposta sta soffiando nel vento

traduzione di Michele Murino


SMISURATA PREGHIERA
di Fabrizio de Andrè

Alta sui naufragi
dai belvedere delle torri
china e distante sugli elementi del disastro
dalle cose che accadono al disopra delle parole
celebrative del nulla
lungo un facile vento
di sazietà di impunità

Sullo scandalo metallico
di armi in uso e in disuso
a guidare la colonna
di dolore e di fumo
che lascia le infinite battaglie al calar della sera
la maggioranza sta la maggioranza sta

Recitando un rosario
di ambizioni meschine
di millenarie paure
di inesauribili astuzie
coltivando tranquilla
l'orribile varietà
delle proprie superbie
la maggioranza sta

come una malattia
come una sfortuna
come un'anestesia
come un'abitudine

Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità

Per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio
e seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici e di figli
con improbabili nomi di cantanti di tango
in un vasto programma di eternità

Ricorda Signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti

come una svista
come un'anomalia
come una distrazione
come un dovere