MAGGIE'S FARM

SITO ITALIANO DI BOB DYLAN

Il sublime e le fonti dell'ispirazione artistica
di Francesco Alunni

Il sublime e le fonti dell'ispirazione artistica
di Francesco Alunni

· Il sublime e la concezione dell'arte

· Le tre fonti dell'ispirazione artistica: l'angelo, la musa e il duende

· L'angelo: Edipo re di Sofocle

· La musa: frammento 134 del Canzoniere di Petrarca
(Pace non trovo, et non ò da far guerra)

· Il duende: Notte stellata di Van Gogh

· L'ispirazione del duende in Bob Dylan: Blind Willie McTell


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Il sublime e la concezione dell'arte

Nel trattato Sul sublime l'anonimo afferma fin dall'inizio la natura essenzialmente emotiva e ultrarazionale dell'arte: "il sublime è una sorta di eccellenza del linguaggio, e i massimi poeti e prosatori non altrove che di qui raggiunsero il primato e consegnarono la loro fama all'eternità. Infatti il sublime trascina gli ascoltatori non alla persuasione, ma all'estasi: perché ciò che è meraviglioso s'accompagna sempre a un senso di smarrimento, e prevale su ciò che è solo convincente o grazioso, dato che la persuasione in genere è alla nostra portata, mentre esso, conferendo al discorso un potere e una forza invincibile, sovrasta qualunque ascoltatore". Detto questo l'autore individua
cinque fonti attraverso le quali si può raggiungere il sublime: la capacità di elaborare nobili pensieri, la passione ispirata e violenta, il corretto uso delle figure retoriche, la nobiltà dell'espressione e la cura nella disposizione delle parole. Nonostante la preminente importanza delle prime due che sono innate e che costituiscono il genio poetico, l'autore non sottovaluta le altre, prodotte invece dalla tecnica, poiché fa notare che "la grandezza abbandonata a se stessa, senza la consapevolezza di sé, è in pericolo, instabile, incostante e lasciata all'impeto irriflessivo della propria audacia". Inoltre un'opera per essere sublime non è necessario che sia totalmente priva di difetti; infatti afferma l'anonimo che "probabilmente è necessario che gli ingegni piccoli o mediocri, proprio perché non osano rischiare tendendo alla vetta, generalmente si tengono lontani da errori, mentre la grandezza è per se stessa rischiosa". Ma questi difetti non ne pregiudicano la grandezza, in quanto il sublime non si rivela costantemente in tutta un'opera, ma in precisi momenti, particolarmente intensi, nei quali risuona in tutta la sua potenza la grandezza d'animo del poeta e l'anima del pubblico vibra all'unisono con questa. Fondamentale, per l'autore, è quindi l'attiva partecipazione del pubblico al fatto artistico nella cui contemplazione l'uomo riconosce una parte di sé: sostiene infatti l'anonimo che "la nostra anima possiede quasi per natura la capacità di esaltarsi davanti alla vera sublimità, e con un nobile slancio si riempie di gioia e di orgoglio, come se avesse creato lei stessa ciò che ha ascoltato". E' importante ricordare che questo tipo di rapporto con gli ascoltatori deriva direttamente dal concetto di arte performativa e dall'abitudine alla fruizione orale, caratteristica della poesia greca arcaica, che abitua il pubblico alla contiguità, fisica e psicologica, tra il testo e l'uditorio. Inoltre, per l'anonimo, il sublime è anche la migliore medicina contro l'artificiosità del linguaggio: sostiene infatti che "il sublime e la passione sono un soccorso e un meraviglioso rimedio contro la diffidenza generata dall'uso delle figure: l'impressione di artificiosità, se è accompagnata dalla grandezza e dalla bellezza, resta nascosta sfuggendo a ogni sospetto". Infine, oltre alle cinque fonti sopra citate, l'autore individua anche un'altra via che porta al sublime, e cioè l'imitazione e l'emulazione dei grandi scrittori e poeti del passato. Bisogna subito precisare che con ciò l'anonimo non intende che si debba ricopiare dalle grandi opere, ma, al contrario, che è necessario entrare in competizione con i grandi che ci hanno preceduto e confrontarsi con loro.

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Le tre fonti dell'ispirazione artistica: l'angelo, la musa e il duende

Nel suo saggio "Il duende. Teoria e gioco" Federico Garcìa Lorca distingue tre fonti dell'ispirazione artistica. Una è quella rappresentata dall'angelo, che simboleggia l'invasamento divino dall'alto. Scrive il poeta spagnolo: "l'angelo guida e regala come san Raffaele, difende ed evita come san Michele e previene come san Gabriele. L'angelo abbaglia, ma vola oltre la testa dell'uomo, è al di sopra, dirama la sua grazia e l'uomo, senza sforzo alcuno, realizza la propria opera, la propria simpatia o la propria danza". L'angelo dunque si libra nell'aria, dà ordini e non è possibile opporsi. Poi c'è la musa, simbolo dell'ispirazione femminile. Di questa dice Lorca: "La musa detta e, in talune occasioni, soffia. Può abbastanza poco, perché è già lontana e così stanca (io l'ho vista due volte) che dovetti metterle mezzo cuore di marmo. I poeti di musa odono voci e non sanno dove, ma sono della musa che li nutre e, talvolta, se li beve."
Poi afferma che "La musa sveglia l'intelligenza, reca paesaggio di colonne e falso sapore di lauro, e spesso l'intelligenza è nemica della poesia, poiché imita troppo, poiché eleva il poeta su un trono di spighe acute e gli fa dimenticare che all'improvviso se lo possono mangiare le formiche o gli può cadere sul capo una grossa aragosta di arsenico, contro la quale nulla possono le muse che stanno nei monocoli o nel rosa di tiepida lacca del salotto." Ma veniamo al duende, il membro più misterioso della triade. Garcìa Lorca, in proposito, raccoglie testimonianze di cantori gitani e ballerine dell'Andalusia: "Una volta, la cantaora andalusa Pastora Pavón […] si sedette a cantare senza voce, senza fiato, senza sfumature, con la gola riarsa, ma… con duende. Era riuscita a uccidere l'intera impalcatura della canzone per cedere il posto a un duende furioso e rovente, amico dei venti carichi di sabbia, che induceva gli ascoltatori a stracciarsi le vesti quasi al medesimo ritmo dei negri antillani";
"Suoni neri, disse il popolano spagnolo, e in ciò concordò con Goethe che, parlando di Paganini, ci fornisce la definizione del duende: "Potere misterioso che tutti sentono e che nessun filosofo spiega"." Precisa poi il poeta spagnolo:
"Così, dunque, il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare. Ho sentito dire da un vecchio maestro di chitarra: "Il duende non sta nella gola; il duende sale interiormente dalla pianta dei piedi". Vale a dire, non
è questione di facoltà, bensì di autentico stile vivo; ovvero di sangue; cioè, di antichissima cultura, di creazione in atto." Prosegue poi Lorca: "angelo e musa vengono da fuori; […] di contro, il duende bisogna svegliarlo nelle più recondite stanze del sangue. […] La vera lotta è quella con il duende."

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L'ispirazione dell'angelo:
l'Edipo re di Sofocle


Nell'Edipo re Sofocle affronta la condizione stessa dell'uomo, il suo essere, e porta avanti questa ricerca nei termini di ambiguità e rovesciamento. Tutto, infatti, nella tragedia è apparentemente in un modo, ma vero nel modo opposto; e questa duplicità trova la sua massima espressione e tensione nell'ambivalenza del linguaggio usato da Edipo: ogni sua affermazione echeggia il suo contrario, come se beffardamente gli fosse rimandata indietro dagli dei. All'inizio dichiara: "Porto la sventura di tutti questi uomini più ancora che se fosse la mia propria" mentre è lui stesso la sventura della città; poi prosegue dicendo che vendicherà Laio come se fosse suo padre, ed invece Laio è veramente suo padre. Quando in seguito Edipo maledice l'assassino di Laio ("solitario, rimasto nel mistero o con aiuto d'altri, si spenga disperato, disperatamente spoglio, fragile, corroso"), questa contraddizione raggiunge l'apice: infatti sta maledicendo se stesso. Edipo conduce quindi un'inchiesta in cui l'investigatore e l'investigato sono la stessa persona e in cui l'agnizione coincide con il rovesciamento: l'uomo infinitamente grande, la salvezza della città, alla fine si scopre la sua rovina, la peste che la contamina. Questa ambiguità è già presente nel suo nome: infatti Edipo, che significa "dai piedi gonfi" e che caratterizza subito il suo stato di escluso e deforme, di rifiutato dai genitori che lo volevano uccidere, in greco può anche suonare come "l'uomo che sa l'enigma del piede", quello della Sfinge: il simile agli dei e il maledetto sono quindi indissolubilmente uniti e non sembra esserci soluzione. Inoltre anche la risposta che nel suo orgoglio di sapiente aveva dato all'enigma della Sfinge (qual è l'essere dall'unica voce, che ha due, tre e quattro piedi?) che presentava, confuse e mescolate assieme, le tre età che l'uomo percorre successivamente e che può conoscere solo l'una dopo l'altra, gli si ritorce contro: chi è l'uomo? Edipo è infatti allo stesso tempo figlio e co-seminatore di Laio, padre e fratello dei propri figli, abbattendo così le frontiere che devono tenere il padre rigorosamente separato dai figli e dall'avo perché ogni generazione umana occupi nella successione di tempo e nell'ordine della città il posto che le spetta. Edipo si scopre così lui stesso un enigma, ma questa volta senza risposta. Inoltre a dominare su tutta la vicenda ci sono gli oracoli, quello che decretava che Laio sarebbe stato ucciso dal figlio, e quello che stabiliva che Edipo avrebbe ucciso il padre e si sarebbe unito con la madre. E più gli uomini cercano di sottrarsi al proprio destino, più gli vanno incontro, lo compiono fino in fondo. Ancora una volta resta irrisolto l'insanabile conflitto tra libertà e necessità e l'uomo è sempre più un enigma a se stesso, oscillante tra l'uguale a dio e l'uguale a nulla.

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L'ispirazione della musa: Pace non trovo, et non ò da far guerra
di Petrarca

Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio ;
et volo sopra 'l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto 'l mondo abbraccio.

Tal m'à in pregion, che non m'apre né serra,
né per suo mi ritiene né scioglie il laccio;
et non m'ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d'impaccio.

Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;
et bramo di perir, et cheggio aita;
et ò in odio me stesso, et amo altrui.

Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per voi.


In questo sonetto Petrarca sintetizza mirabilmente, attraverso un uso massiccio di antitesi e ossimori, la contraddittorietà dei sentimenti che caratterizzano la propria esperienza. Nella prima quartina la sua profonda inquietudine esistenziale, tutta proiettata nel sentimento amoroso, si esplica nell'oscillazione tra l'esaltazione e la disperazione, la speranza e il timore, il desiderio di assoluto e la constatazione della finitudine della propria vita ("et nulla stringo, et tutto 'l mondo abbraccio"). Nella seconda quartina questa tensione prende invece la forma di una sensazione di sospensione tra libertà e schiavitù, vita e morte.
Infatti il poeta sente profondamente il legame che lo unisce a Laura, al punto che questo annienta il suo libero arbitrio, privandolo così della vita, nel senso pieno della parola, e riducendolo ad una pura esistenza biologica. Da qui l'odio che nutre verso di sé, visto che ormai ha perduto il controllo e l'insostenibilità della situazione, dalla quale supplica di essere liberato, perfino con la morte.
Nell'ultima terzina emerge anche un altro elemento: "pascomi di dolor, piangendo rido". Affermando di nutrirsi della propria sofferenza, Petrarca potrebbe anche voler dire che in fondo questa condizione, pur provocandogli immani dolori, non gli dispiaccia del tutto, in quanto è da essa che trae l'ispirazione per la propria arte, ed è da questa incredibile tensione che il suo animo si rivela in tutta la propria grandezza. Questa contraddittorietà di sentimenti diventa quindi paradigma anche della sua esperienza umana, divisa tra le vane cose del mondo e l'aspirazione all'assoluto.

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L'ispirazione del duende: Notte stellata di Vincent Van Gogh



Nella Notte stellata Van Gogh, pur partendo dal dato reale (sono state infatti riconosciute nelle stelle del quadro la costellazione di Aries e il pianeta Venere), lo trasfigura, proiettandovi le proprie sensazioni e la propria inquietudine. Innanzitutto c'è la scelta della campagna, simbolicamente vista, in contrapposizione alla corruzione della città, come il luogo nel quale gli uomini conducono un'esistenza più autentica e pura; poi quella della notte, momento in cui dorme la ragione e nel quale cessano le attività del mondo, che distraggono gli uomini dalla realtà più vera, quella della natura e del cosmo, visti come creazione.
E proprio nel cielo sembra giocarsi la partita dell'esistenza, con queste linee ondulate, a vortice, che esprimono tutta la tensione dell'animo umano nella ricerca della luce, di un'illuminazione che riscatti e dia senso alla vita, simboleggiata dalle stelle, ma soprattutto dalla luminosissima falce della luna. E a dominare su tutto, in primissimo piano, c'è il cipresso, che sembra quasi un fuoco vivo, nella sua tensione verso l'alto, ma che testimonia, nella sua compattezza, anche il bisogno di pace, di tranquillità, di superamento di tutti i dissidi interiori che tormentano l'anima.

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L'ispirazione del duende in Bob Dylan: Blind Willie McTell

In Blind Willie McTell Dylan si confronta con quella che è una delle sue più grandi fonti di ispirazione, nonché il suo più importante retroterra culturale dal punto di vista musicale, la musica tradizionale. E' infatti proprio la folk music, che fu accusato di tradire quando nel 1965 passò dalla chitarra acustica all'elettrica, il suo duende, che gli garantisce il legame con lo Spirito della terra. Ecco in proposito un estratto da un'intervista a Dylan del 1966: "La musica tradizionale è basata su esagrammi. Viene dalle leggende, dalla Bibbia, dalle pestilenze, si occupa di vegetali e di morte. Nessuno la può uccidere. Tutte queste canzoni che parlano di rose che escono dal cervello della gente e di amanti che in realtà sono oche e cigni che si trasformano in angeli non moriranno mai. […] Ovviamente, non è che la morte sia universalmente accettata. Voglio dire, ci si dovrebbe aspettare che la gente che si occupa di musica tradizionale capisca, proprio dalle canzoni, che il mistero è un fatto, un fatto tradizionale. […] Ma in ogni modo, la musica tradizionale è troppo irreale per morire. Non ha bisogno di essere protetta, nessuno le può fare del male. In quella musica c'è l'unica morte vera e di qualche valore che possa uscire da un giradischi oggi come oggi. Ma la gente cerca di possederla, come fa con qualunque cosa di cui c'è grande richiesta. Ha tutto a che fare con un'ossessione di purezza. Io credo invece che la mancanza di significato della musica tradizionale sia sacra. Lo sanno tutti che io non sono un folksinger." Nel 1983, l'anno di incisione della canzone, Dylan sembra aver perso queste certezze, ed infatti non chiede a Blind Willie McTell di trasfondergli il potere del blues; gli sta domandando se davvero il blues è morto, e se il duende sia ormai scomparso dal mondo. Tuttavia, come afferma Alessandro Carrera, uno
dei più importanti studiosi di Dylan, "la canzone è una domanda senza risposta; è un'invocazione per farla finita con le invocazioni, un tentativo di pagare il conto e di andarsene prima che l'albergo vada a fuoco. Ma, come nei sogni in
cui si vorrebbe fuggire e le gambe non si muovono, anche in Blind Willie McTell i gesti di fuga sono rallentati dal timore che di tempo non ne sia rimasto più." Infatti, sempre per dirla con le parole di Carrera, "abbiamo descrizioni di paesaggi, che potrebbero essere della Louisiana e del Texas, vignette di un'epoca scomparsa, tutte concluse dal ritornello che ossessivamente ripete che questo mondo è finito, perchè questo mondo era stato cantato dal blues e che nessuno saprà più cantare il blues come Blind Willie Mc Tell." Inoltre, nell'ultima strofa, emerge la contraddizione tipica del bluesman, ossessionato dalla presenza di Dio nei cieli e dalla sua assenza sulla terra ("beh, Dio è nel Suo paradiso, e tutti noi vogliamo ciò che è suo; ma potere ed avidità e seme mortale è tutto ciò che sembra esserci"), ma emerge al contempo anche l'altra grande fonte di ispirazione per Dylan, la Bibbia. Infatti l'espressione Dio è nel Suo paradiso è tratta dal Qoelet, 5, 1-2 ("Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferir parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo
e tu sei sulla terra; perciò le tue parole siano parche, poiché dalle molte preoccupazioni vengono i sogni e dalle molte chiacchiere il discorso stolto"), mentre seme mortale viene dalla Prima lettera di S. Pietro, 1, 23-24 ("essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna").

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Bibliografia:
Il sublime, Anonimo, Mondatori;
Il duende. Teoria e gioco, Federico Garcìa Lorca;
Saggi su mito e tragedia, Vernant – Vidal-Naquet, Einaudi scuola;
La voce di Bob Dylan, Alessandro Carrera, Feltrinelli.