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" Volevo soltanto una canzone da cantare , e arrivò un certo momento in cui non riuscii a cantare niente . Così dovetti   cominciare a scrivere ciò che volevo cantare perchè nessun altro scriveva ciò che volevo cantare . Non riuscivo a trovare niente di buono , ovunque cercassi , se ci fossi riuscito forse non avrei mai cominciato a scrivere canzoni . (Bob Dylan)  

 

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THE NEWS

 
Venerdi 4 Aprile 2008

4 Aprile 1968 , a Memphis veniva ucciso 40 anni fà Martin Luther King , il nostro ricordo col discorso più famoso......

I have a dream (Ho un sogno) è la frase con cui viene identificato il discorso tenuto da Martin Luther King il 28 agosto del 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington al termine di una marcia di protesta per i diritti civili.

Il brano, estratto dal discorso e contenente questa famosa frase, è il seguente:

 
« [...] Let us not wallow in the valley of despair, I say to you today, my friends, so even though we face the difficulties of today and tomorrow, I still have a dream. It is a dream deeply rooted in the American dream.

I have a dream that one day this nation will rise up and live out the true meaning of its creed: "We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal".

I have a dream that one day on the red hills of Georgia, the sons of former slaves and the sons of former slave owners will be able to sit down together at the table of brotherhood.

I have a dream that one day even the state of Mississippi, a state sweltering with the heat of injustice, sweltering with the heat of oppression, will be transformed into an oasis of freedom and justice.

I have a dream that my four little children will one day live in a nation where they will not be judged by the color of their skin but by the content of their character.

I have a dream today!

I have a dream that one day, down in Alabama, with its vicious racists, with its governor having his lips dripping with the words of "interposition" and "nullification" - one day right there in Alabama little black boys and black girls will be able to join hands with little white boys and white girls as sisters and brothers.

I have a dream today!

I have a dream that one day every valley shall be exalted, and every hill and mountain shall be made low, the rough places will be made plain, and the crooked places will be made straight; "and the glory of the Lord shall be revealed and all flesh shall see it together". [...] »
 
« [...] Oggi vi dico, amici, non indugiamo nella valle della disperazione, anche di fronte alle difficoltà dell'oggi e di domani, ho ancora un sogno. È un sogno fortemente radicato nel sogno americano.

Ho un sogno, che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo: "Riteniamo queste verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali".

Ho un sogno, che un giorno, sulle rosse colline della Georgia, i figli degli antichi schiavi e i figli degli antichi proprietari di schiavi riusciranno a sedersi insieme al tavolo della fratellanza.

Ho un sogno, che un giorno persino lo stato del Mississippi, uno stato che soffoca per l’afa dell’ingiustizia, che soffoca per l’afa dell’oppressione, sia trasformato in un’oasi di libertà e di giustizia.

Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non siano giudicati in base al colore della loro pelle, ma in base al contenuto del loro carattere.

Ho un sogno oggi!

Ho un sogno, che un giorno, giù in Alabama, con i suoi razzisti immorali, con il suo governatore le cui labbra gocciolano delle parole "interposizione" e "nullificazione" - un giorno proprio là in Alabama bambini neri e bambine nere possano prendersi per mano con bambini bianchi e bambine bianche come sorelle e fratelli.

Ho un sogno oggi!

Ho un sogno, che un giorno ogni valle sia colmata, e ogni monte e colle siano abbassati, i luoghi tortuosi vengano resi piani e i luoghi curvi raddrizzati. "Allora la gloria del Signore sarà rivelata ed ogni carne la vedrà" [...] »

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La Baez supporta Obama

 

Joan Baez ha cominciato la sua carriera verso la fine degli anni 50 come la figlia dai capelli corvivi del nuovo movimento folk americano.

Cinquanta anni dopo, si è trovata ad occupare un ruolo più materno  ora fà una cosa che molti non avrebbero mai immmaginato , compresa lei , quello della nonna. Dice Joan "Non ho avuto molto tempo da dedicare alla famiglia negli anni 60 e 70 , ma ora che ho 67 anni sì “ ha detto in una recente intervista al telefono " Mia mamma è ancora viva ed haun bel nipotino. La gente non ha di me questa immagine , in gran parte perché io non ho potuto darla , ma questa immagine di oggi è quella a cui dedico tempo ed energia ed è emozionante a me.hanno sostituito le mie due passioni : la protesta e la musica.

L’uscita del suo nuovo album “Dark chords on a big guitar”, inizialmente era prevista per il prossimo mese di agosto, la sua pubblicazione è ora invece stabilita per il 9 settembre. Per Joan Chandoz Baez, classe Quarantuno, ex compagna di Bob Dylan, si tratta del primo disco di studio dopo quasi 6 anni. Il CD, assemblato nello scorso dicembre in uno studio nei pressi di New York, contiene dieci cover. Tra i brani sono da annoverare “Wings” di Joe Ritter, “Christmas in Washington” di Steve Earle e “Motherland” di Natalie Merchant. Intanto la Universal ha annunciato che spedirà nei negozi, pare inizialmente solo negli USA, un cofanetto intitolato “Joan Baez - The complete A&M recordings (1972-1976)”; il supporto è atteso per il 26 agosto e contiene, in 4 CD, i 6 LP che la Baez incise appunto per la A&M. I primi concerti della cantautrice si svolsero al Club 47 di Cambridge, Massachusetts, nel '59. L'incontro con Dylan risale all'aprile '61. Il suo brano più conosciuto rimane “We shall overcome”.

Secondo il Chronicle de San Francisco, la Baez per la prima volta stà sostenendo un candidato presidenziale, sottolineando l'abilità di Barack Obama "porta l'unità ad un paese che è stato diviso troppo a lungo." "non ho avuto mai qualche cosa a che fare con la politica " ha detto la Baez, che negli anni 70 aveva marciato con Martin Luther King , ha protestato per la guerra in Vietnam a Hanoi ed ha sostenuto i diritti degli immigrati accanto a César Chávez. " Penso che il messaggio "di cambiamento" di Obama abbia il potenziale per arrivare a Washington. "tutti noi stiamo aspettando qualcosa che venga a rendere il nostro lavoro coesivo con gli altri" ha detto agli attivisti in ogni campo. " C’è gente meravigliosa che fa cose meravigliose e che risolve le cose , ma che deve essere vista”. Improvvisamente, ci è parsa una persona che vuol dare ancora una possibilità ai suoi sogni . La cantante , con i suoi capelli ormai grigi , desidera ancora la pace, l'armonia e l'uguaglianza , ed è disposta ancora una volta a  radunarsi e a cantare - fino a che non l’abbia ottenuta . "la musica è la parte pacifica di me," ha detto, suggerendo che la musica di protesta potrebbe avere lo stesso effetto sulla guerra corrente in Irak come l’ha avuta sulla guerra di Vietnam.

( Dean Spencer news )

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George Ivan Van Morrison a.k.a. “ The Man “

 

Il video di due “ giganti “ – Morrison & Dylan      clicca l'immagine

 

 

Origini

Cresciuto in una famiglia protestante di Belfast, Morrison ascolta molta musica sin dalla più tenera età: sua madre era una cantante mentre il padre era collezionista di album americani di jazz e blues.

I loro artisti preferiti erano Ray Charles, Leadbelly e Solomon Burke; nel 2005, in un'intervista concessa a Rolling Stone, Morrison afferma che Those guys were the inspiration that got me going.
If it wasn't for that kind of music, I couldn't do what I'm doing now [1]" ("Quegli artisti hanno ispirato i miei inizi. Se non fosse stato per quel genere di musica, oggi non farei quello che sto facendo").

Anni '60

Morrison va via di casa a 15 anni per intraprendere la sua carriera musicale. Suona in diversi locali con complessi skiffle e rock and roll prima di entrare a far parte del gruppo dei Monarchs, con i quali partecipa ad una tournée in giro per l'Europa.

Nel 1964 fonda, infine, il gruppo dei Them del quale diviene il leader. La band raccoglie numerosi successi, il maggiore dei quali è Gloria, che sarebbe divenuto uno degli standard del rock e che verrà incisa da numerosi altri artisti.

Morrison diviene sempre più insoddisfatto dell'utilizzo dei musicisti in studio, e lascia la formazione dopo un tour negli USA nel 1966. Ritorna a Belfast, deciso a lasciare il mondo della musica. Il produttore dei Them, Bert Berns, lo persuade a ritornare a New York e a registrare materiale da solista per l'etichetta Bang Records. Da queste prime session emerge una delle sue canzoni più famose, Brown-eyed girl, che raggiunge il numero 10 delle classifiche USA nel 1967. L'album generato da quelle sessioni è Blowin' your mind!. Morrison ammise successivamente che non era soddisfatto del risultato, dicendo in un'intervista del 1969 a Rolling stone che It came out wrong and they released it without my consent ("É venuto male e lo pubblicarono senza il mio consenso"). Registrazioni di quel periodo furono rieditate occasionalmente dalla Bang e anche sotto forma di bootleg, sotto vari nomi. Le registrazioni complete furono messe insieme nel 1991 come Bang masters. Includono una versione alternativa di Brown-eyed girl, così come una prima versione di Beside you e di Madame George, canzoni che compaiono con lievi variazioni di accordi, di arrangiamento e di parole nel secondo album di Morrison.

Dopo la morte di Berns (1967), Morrison si trasferisce a Boston, Massachusetts. Ben presto deve affrontare problemi finanziari e personali. Entra in depressione in seguito ad alcolismo ed ha problemi nel trovare ingaggi. Ricomincia tuttavia a lavorare, registrando con la Warner Bros. il song cycle Astral Weeks. Materiale dell'album è stato già eseguito in diversi club intorno a Boston, come nel caso della title track, ballata da molti considerata la sua miglior canzone. Uscito nel 1968, l'album è acclamato dalla critica, ma riceve una fredda accoglienza da parte del pubblico. Astral Weeks è stato incluso in molte liste dei migliori album di sempre.

Anni '70

Morrison si trasferisce in California dove pubblica Moondance (1970), del quale cura anche la pruduzione. L'album raggiunge la 29^ posizione della classifica curata da Billboard. Lo stile di questo album è in netto contrasto con quello di Astral Weeks: se questo era un album intriso di tristezza e tenerezza, Moondance è invece ottimistico ed allegro. La title track, sebbene mai pubblicata negli Stati Uniti come singolo, diviene un grande successo radiofonico. Anche Into the mystic, canzone molto evocativa, diviene molto popolare nel corso degli anni.

Negli anni immediatamente successivi pubblica diversi altri album di successo (His band and the Street Choir del 1970, Tupelo honey del 1971 e Saint Dominic's preview del 1972). Tra i pezzi più significativi di questi album vanno ricordati Domino (9° negli USA nel 1970), Wild night e Tupelo honey.

Nel 1972, nonostante la decennale esperienza concertistica, comincia a temere il palco, soprattutto davanti ad un pubblico molto numeroso. Se, del resto, fino ad allora egli ha radunato centinaia di persone, la popolarità acquisita con gli ultimi album richiama ormai ai suoi concerti migliaia di fan. A tal proposito, in un'intervista afferma: I dig singing the songs but there are times when it's pretty agonizing for me to be out there ("non vedo l'ora di cantare ma ci sono momenti in cui è penoso stare sul palco"). [2]

Dopo un breve distacco dalla musica, inizia a esibirsi nei club e riguadagna la sua abilità istrionica, sebbene con un pubblico più ridotto. Forma poi un gruppo, The Caledonia Soul Orchestra e con esso si avventura in un tour americano di tre mesi, riportato dall'album doppio It's too late to stop now, ampiamente riconosciuto come uno dei più grandi album dal vivo nella storia del rock.

Nel 1973 Morrison scioglie la Caledonia Soul Orchestra e divorzia dalla modella Janet Planet, che era sua moglie da sette anni e con la quale ha avuto una figlia. Realizza poi l'album introspettivo e triste Veedon fleece (1974). Per quanto quest'album riceva poca attenzione al tempo della sua pubblicazione, la sua importanza è cresciuta attraverso gli anni ed è ora considerato uno dei migliori lavori di Morrison. La canzone You don't pull no punches, but you don't push the river evidenzia il lato ipnotico e criptico di Morrison, con i suoi riferimenti al poeta visionario William Blake e al Sacro Graal.

Morrison si prende una pausa per i successivi tre anni. Ma si tratta di una pausa non preventivata: durante questo tempo, è in grado di scrivere e registrare un certo numero di nuove canzoni, e in un'intervista alla radio KSAN nel 1974, lascia intendere di voler realizzare un nuovo album dal titolo Mechanical bliss, appena 4-5 mesi dopo Veedon fleece. La data d'uscita prevista (febbraio 1975) non viene rispettata. Nel frattempo, il titolo dell'album conosce diversi cambiamenti (doveva intitolarsi Stiff upper lip, poi Naked in the jungle); il pittore Zox viene incaricato di creare il disegno di copertina. Il progetto viene alla fine abbandonato, e molto del lavoro fatto verrà pubblicato soltanto in Philosopher's stone del 1998. Il disegno di Zox viene più tardi incorporato nella copertina di The royal scam, degli Steely Dan (1976). [3]

Nel 1976, Morrison suona al concerto d'addio della Band, nel Giorno del Ringraziamento. È la prima esibizione dal vivo dopo un periodo di silenzio e Morrison considera più e più volte l'eventualità di saltare l'esibizione fino all'ultimo secondo, ma alla fine l'esibizione ha un successo travolgente. Suona due canzoni, una delle quali è Caravan (da Moondance). Il concerto viene filmato da Martin Scorsese che ne ricava un film (L'ultimo valzer, del 1978).

Nel 1977, Morrison scrive A period of transition, in collaborazione con Dr. John (anche lui presente in The last waltz). Dell'anno seguente è Wavelenght, che rappresenta una nuova rinascita commerciale. La canzone Kingdom Hall tratta dell'esperienza di Morrison con i testimoni di Geova e indica le tendenze religiose che diverranno evidenti nell'album successivo, Into the music, del 1979. Dave Marsh descrive quest'album (in The Rolling stone album guide - 2nd edition) come "un ciclo erotico/religioso di canzoni che culmina nella migliore musica che Morrison abbia creato fin dai tempi di Astral weeks".

Anni '80

Gran parte della produzione di Morrison degli anni '80 prosegue l'esplorazione della spiritualità e della fede, avvicinandosi alla New Age. Gli album tendono a perdere in tensione musicale e ad assomigliarsi troppo tra loro, pur con zampate improvvise di creatività come No Guru, No Method, No Teacher in cui spiccano musicisti presenti in Moondance come il pianista Jef Labes. Spiccano, in questo periodo della carriera, Summertime in England (da Common One), Cleaning windows (da Beautiful Vision), Rave On, John Donne (da Inarticulate speech of the heart), Tore Down À La Rimbaud (da A Sense Of Wonder) e In The Garden (da No Guru, No Method, No Teacher).
Un unicum della sua produzione è rappresentato dall'album realizzato in collaborazione con i Chieftains. Irish Heartbeat racchiude brani della tradizione irlandese interpretati in brevi e spontanee sessions che catturano alla perfezione il mélange precario tra le ruvide e suggestive tessiture acustiche dei Chieftains e il cantato soulful di Morrison alle prese con alcune delle sue migliori interpretazioni di sempre (Raglan Road, She Moved Through The Fair, My Lagan Love...).L'album avrà grandissima influenza sui giovani musicisti interessati a un approccio più ruvido alla musica roots.
Con il nuovo contratto alla Polydor Morrison conosce la definitiva rinascita commerciale a partire da Avalon Sunset, contenente almeno due classici come il duetto con Cliff Richards Wherever God Shines His Light e la celeberrima ballata Have I Told You Lately.
Viene ufficialmente sancito il suo status di evergreen.

Anni '90

Nel 1990, Morrison partecipa, insieme a molti altri artisti, allo spettacolo The wall, organizzato da Roger Waters a Berlino, dove canta Comfortably numb con Roger Waters, Levon Helm, Garth Hudson e Rick Danko.
Le incisioni si succedono con regolarità e un successo commerciale consolidato, spesso a scapito, purtroppo, della qualità.
Il monumentale live A Night in San Francisco testimonia un periodo fecondo e fortunato.

Influenze

L'influenza di Morrison può essere riconosciuta facilmente nella musica di molti artisti quali gli U2 (soprattutto The Unforgettable Fire), Bruce Springsteen (Spirit in the Night, Backstreets), Bob Seger, Rod Stewart, Patti Smith (responsabile di una versione poetica-proto-punk di Gloria), Graham Parker, Thin Lizzy, Dexys Midnight Runners e molti altri. Tra questi, Bob Seger in un'intervista a Creem ha affermato I know Springsteen was very much affected by Van Morrison, and so was I ("è chiaro che Springsteen è stato molto influenzato da Van Morrison e la stessa cosa è accaduta a me").

Premi e riconoscimenti

Grammy Awards:

  • 1996 Best Pop Collaboration with Vocals, Have I told you lately (con i Chieftains)
  • 1998 Best Pop Collaboration with Vocals, Don't look back (con John Lee Hooker)
  • 1999 Grammy Hall of Fame Award per Astral weeks
  • 1999 Grammy Hall of Fame Award per Moondance

Altri riconoscimenti:

  • 1993 Inserito nella Rock and Roll Hall of Fame
  • 2003 Inserito nella Songwriters Hall of Fame

Discografia

Album

  • 1967 Blowin' your mind (182° nelle classifiche USA)
  • 1968 Astral weeks
  • 1970 Moondance (29° negli USA)
  • 1970 His band and the Street Choir (32° negli USA)
  • 1971 Tupelo honey (27° negli USA)
  • 1972 Saint Dominic's Preview (15° negli USA)
  • 1973 Hard nose the highway (27° negli USA)
  • 1974 It's too late to stop now (53° negli USA)
  • 1974 Veedon fleece (53° negli USA)
  • 1977 A period of transition (43° negli USA)
  • 1978 Wavelength (28° negli US)
  • 1979 Into the music (43° negli USA)
  • 1980 Common one (73° negli USA)
  • 1982 Beautiful vision (44° negli USA)
  • 1983 Inarticulate speech of the heart (116° negli USA)
  • 1984 Live at the Grand Opera House, Belfast
  • 1985 A sense of wonder (61° negli USA)
  • 1986 No guru, no method, no teacher (70° negli USA)
  • 1987 Poetic champions compose (90° negli USA)
  • 1988 Irish heartbeat con i Chieftains (102° negli USA)
  • 1989 Avalon Sunset (91° negli USA)
  • 1990 Enlightenment (62° negli USA)
  • 1991 Hymns to the silence (99° USA)
  • 1993 Too long in exile (29° negli USA)
  • 1994 A night in San Francisco (125° negli USA)
  • 1995 Days like this (33° negli USA)
  • 1996 How long has this been going on (55° negli USA)
  • 1996 Tell me something: The songs of Mose Allison
  • 1997 The healing game (32° negli USA)
  • 1999 Back on top (28° negli USA)
  • 2000 The skiffle sessions - Live in Belfast 1998 con Lonnie Donegan e Chris Barber
  • 2000 You win again (161° negli USA)
  • 2002 Down the road (25° negli USA)
  • 2003 What's wrong with this picture? (32° negli USA)
  • 2005 Magic time (25° negli USA)
  • 2006 Pay the Devil

Raccolte

  • 1991 Bang masters

Singoli

  • 1967 Brown-eyed girl (10° negli USA)
  • 1970 Come running (39° negli USA)
  • 1970 Domino (9° negli USA)
  • 1971 Blue money (23° negli USA)
  • 1971 Call me up in dreamland (95° negli USA)
  • 1971 Wild night (28° negli USA)
  • 1972 Tupelo honey (48° negli USA)
  • 1972 Jackie Wilson said (I'm in heaven when you smile) (61° negli USA)
  • 1972 Redwood tree (98° negli USA)
  • 1977 Moondance (92° negli USA)
  • 1978 Wavelength (42° negli USA)

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La figlia di Teresa Augello cantata da Bob Dylan

 

Certo che quella di Alicia Keys è una bella storia, come tutte le storie di chi nasce figlio di tanti Paesi. La mamma di Alicia si chiama Teresa Augello, detta Terri, origini scozzesi, irlandesi e naturalmente italiane, che, dopo la separazione dallo steward giamaicano Craig, si è concentrata sulla sua bambina, diventandone l’istruttrice, la guida e poi (fino a pochi mesi fa) anche la manager. Quando Alicia, che è nata il 25 gennaio del 1980 (o del 1981), ha deciso di scegliere come nome d’arte Alicia Wilde, la mamma glielo ha fatto cambiare in Keys «perché ho fatto un sogno». Diploma in solo tre anni alla Professional performing arts school, iscrizione alla Columbia University poi abbandonata subito, la vita di Alicia Keys ha avuto un solo comun denominatore: la musica. Quando nel 1997 è uscito il film «The men in black», uno dei brani della colonna sonora («Dah dee dah - Sexy thing») era il suo ma nessuno se ne accorse. E così più o meno accadde per le colonne sonore di «Shaft» e «Dr. Dolittle» del 2001. Il boom è arrivato con il primo disco «Songs in A Minor», che ha venduto dieci milioni di copie e ha trasformato Alicia Keys in un super seller da quaranta milioni di dischi venduti, undici premi Grammy sulla falsa riga di altri campioni come Mariah Carey e Beyoncé che prima erano solo i suoi idoli. E l’ha fatta menzionare anche in un testo di Bob Dylan, che in «Thunder on the mountain» (da «Modern times» del 2006) canta, tra l’altro, «Stavo pensando ad Alicia Keys e non riuscivo a trattenere il pianto». Però !!!

( Dean Spencer news )

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Mick Jagger ha il pisello da bambino

Mick Jagger con la nuova fiamma, L'Wren Scott

"You can't always get what you want" recita il ritornello di uno dei brani più amati dei Rolling Stones. Non si può sempre ottenere cià che si vuole e Mick Jagger lo sa da tempo. La natura ha deciso che lui e John Holmes sarebbero stati felici, ma passando per strade diverse. Mick avrebbe usato il microfono, John un altro attrezzo meno metallico ma altrettanto incisivo. Ciò che pochi avrebbero immaginato è che Jagger facesse un cruccio del suo pene. Al punto da ricorrere ad uno strano rituale magico per farselo allungare.

A rivelare questi dettagli indiscreti è stato il regista Julien Temple, re dei videoclip e autore dei film La grande truffa del rock and roll (sui Sex Pistols) e Absolute Beginners (sui Mod e David Bowie). Secondo Temple, Jagger scoprì nel 1981 il rituale degli indios amazzonici per allungare il muscolo dell'amore. A quell'epoca i Rolling Stones erano impegnati sul set di un video diretto proprio da Temple, mentre Jagger faceva parte del cast di Fitzcarraldo, film estremo diretto da Werner Herzog e ambientato proprio in Amazzonia.

Ossessionato dalla sua scarsa prestanza fisica, Jagger chiese di sottoporsi al rituale indio. Consisteva nell'infilare il proprio pene in una canna di bambù che poi veniva riempita di api. Gli insetti provvedevano a pungere il "fortunato", fino ad ingrossargli e allungargli gli attributi. "Mick trascorse mesi nella giungla per risolvere il problema" ha aggiunto il maligno Temple.

Funzionò? No, a giudicare dalle parole di Janice Dickinson: "Sarà un dio del rock ma ha il pisello di un bambino" ha detto lei alla Bbc. Eppure Mick può vantare una galleria di conquiste eccellenti, da Marianne Faithfull a Jerry Hall, top model che è stata a lungo sua moglie e che ora vive nella casa accanto alla sua. Fino all'ultima conquista: la monumentale (1,93 di altezza) mora di fuoco L'Wren Scott, stilista e gallerista americana. Lui ha 63 anni, lei 40.

( Dean Spencer news )

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Suze : " Bobby , when it comes the VW van ? I'm freezing right to the bones , new york time said it was the coldest winter in seventeen years, i didn't felt so cold ! ".

Bob : " It's just backside of us , let it park , i don't want come back some other day , we take the pic and asap we go away  ".

Suze : " I don't understand , it was just necessary ? ".

Bob : " Yes baby , that van is our generation's "On the road" symbol , Kerouac said that in line , something is happening here but you don't know what it is , do you Miss Rotolo ?".

Bob : " OK , let's go ".

Suze : " Finally , i was going round the band !".

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T-Bone Burnett - " Mi piacerebbe produrre e registrare Dylan ".

left to right : Roger McGuinn - Joni Mitchell - T-Bone Burnett - Joan Baez - Bob Dylan - Rob Stoner - Bob Newhirt

Il leggendario musicista e produttore T-Bone Burnett ha revelato che gli piacerebbe lavorare ancora con Bob Dylan .

La carriera musicale di Burnett è iniziata quando Dylan gli ha chiesto di suonare nella Rolling Thunder Revue Tour 1975 , e i due hanno lavorato assieme recentemente per le canzoni del film “The divine secrets” delle Ya-Ya Sisterhood , ovviamente quando gli è stato chiesto se voleva considerare l’idea di produrre Dylan come aveva fatto con Elvis Costello e Robert Plant , Burnett ha risposto : “ Vorrei che me lo chiedesse , mi piacerebbe registrare Dylan con un suono profondo e caldo , tipo quello che sò che ama lui “.

Burnett ha aggiunto che ha sempre amato preparare le sedute di registrazione nello stesso stile col quale le sedute di Robert Plant e quelle di Krauss per “Raising Sand” sono state realizzate . Ha anche aggiunto “ Mi piacerebbe essere capace di assettare la sala di registrazione con i microfoni e....lascia perdere ( risata) , mi piacerebbe potergli dare il suono giusto per lui , ma è complicato e non sò se potrei produrre o registrare per Bob “.

 

Giovedi 3 Aprile 2008

"Our lady" il gruppo di Renzo Cozzani di scena questa sera al Pegaso Live Music Bar di via Aurelia Nord 92 ad Arcola.

Renzo Cozzani al MFFF Umbria 2007 - Città di Castello

Questa sera “Our Lady” in concerto, un gruppo musicale che si è costituito circa due anni fa: è un ensemble semiacustico che si caratterizza per l’unione tra strumenti e sonorità caratteristici del folk-rock con altri più tipici della tradizione classica e popolare.

Il repertorio proposto si basa essenzialmente su composizioni originali in lingua italiana di Renzo Cozzani unite alla riproposizione di brani di autori del folk-rock d’oltreoceano quali Bob Dylan, Emmylou Harris, Neil Young, Patti Smith, Lucinda Williams, Leonard Cohen ed altri, con la particolarità che diverse di queste (in particolare Dylan, Young, Cohen) sono versioni tradotte in lingua italiana. Il gruppo è costituito da Alessandra Rossi clarinetto; Francesca Rossi violoncello; Renzo Cozzani chitarra e voce; Roberto Pelosi slide, concertina; Simone Vignoli chitarra e voce; Valeria Liborio voce, percussioni.

( da " il SecoloXIX " - La spezia )

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" La Stampa " dedica un articolo a Murino e Dylan

Ciao Mr. Tambourine ,
sei in buona compagnia :o)
mi hanno intervistato anche quelli
de La Stampa
ti allego l'articolo per MF
ciao
michele

Upsy-daysy , i can't refuse at Napoleon in rags and the language that he use , take a dekko maggiesfarmers !

Comunque , al di là di quello che dichiara l'assessore Cristina Rore mi sembra molto strano che il management e il sito ufficiale di Dylan diano la conferma di una data senza aver prima ricevuto i soldi dell'acconto sul cachet , o sbaglio ?!!!

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Due chiacchiere con Al kooper

 

Se glielo dici, si schermisce. Eppure Al Kooper è veramente una leggenda. Non fosse che per l'organo Hammond di Like A Rolling Stone di Bob Dylan, il brano che nel 1965 cambiò le coordinate sonore del rock. Con Dylan Al Kooper ha collaborato spesso, ma la sua attività di “ragazzo prodigio” - organista, pianista e produttore, ha cominciato a suonare appenatredicenne nel '57 - ha avuto una vera e propria esplosione negli anni '60, prima con i Blues Project, poi con i Blood, Sweat & Tears e il progetto Super Session (con Mike Bloomfield e Stephen Stills). Quest'ultimo disco, ristampato nel 2003 con l'aggiunta di qualche inedito, è forse quello che rappresenta meglio il suo stile segnato dal blues. Kooper ha collaborato fra gli altri con i Rolling Stones, Jimi Hendrix, Harry Nilsson e ha prodotto gli album d'esordio dei Lynyrd Synyrd e dei Tubes. Non possiamo ricordare qui tutte le sue avventure, ma ci ha fatto piacere ritrovarlo in gran forma, nonostante un filo di amarezza qua e là tra le sue parole. Al Kooper ha suonato ieri a Forlì e sarà domani 1° maggio al Teatro Gentile di Cittanova, Reggio Calabria.

Cosa sta facendo in questi ultimi tempi?

Sto suonando soprattutto dal vivo. L'anno scorso sono riuscito a pubblicare un disco, Black Coffee, dopo un lungo silenzio e ora ne ho cominciato un altro.

Con il mutare dei tempi e con l'affermarsi di un suono sempre più commerciale non dev'essere stato facile trovare un'etichetta discografica.

Lo è stato, ma ho avuto anche fortuna perché la persona che gestisce l'etichetta con cui è uscito Black Coffee è un altro musicista. Si è trattato della collaborazione tra due musicisti.

Come definirebbe la musica che sta facendo?

La stessa che ho sempre fatto. Faccio quello che faccio e cerco di migliorare con il passare del tempo. Non mi sono avventurato in qualcosa che non ho già fatto.

È riuscito a raggiungere anche un pubblico nuovo?

Non è una cosa che devo fare io. Io faccio le mie cose, le lancio e chi le prende, le prende. Non posso fare nulla per agganciare un pubblico nuovo. Quest'ultimo dovrebbe essere interessato alla musica del passato.

Come ci si sente ad essere una leggenda del rock?

Non penso a me stesso come a una leggenda. Vorrei che mi pagassero di più per suonare la mia musica, così potrei stare in posti migliori e viaggiare in aereo in condizioni migliori. Non mi sento per niente una leggenda.

Tra i tanti dischi che ha fatto ce n'è qualcuno che ama in modo particolare?

Quando ho finito un disco non lo riascolto più, così non ho particolari preferenze. Di solito passano dieci o quindici anni prima che io riascolti uno dei miei dischi. E tutto quello che sento alla fine sono gli errori. Non è un'esperienza piacevole e di solito non lo faccio. Sono gli altri a farmeli risentire.

Questo vuol dire che non le va di essere coinvolto nelle ristampe? Quella di «Super Session», per esempio, è molto bella.

Sono molto interessato alle ristampe. Mi permettono di migliorare il suono dei vecchi dischi con la nuova tecnologia. La nuova edizione di Super Session suona meglio di come abbia mai fatto in passato.

È vero che nella famosa session di Dylan per «Like A Rolling Stone» lei era stato chiamato per suonare la chitarra?

Ero un ospite. Dovevo soltanto fare una visita allo studio e vedere le session. Non ero stato ingaggiato per suonare. È stato un incendio spontaneo.

È difficile suonare con Dylan?

Abbiamo un'alchimia molto buona quando suoniamo ed è molto divertente farlo. Quando capita è sempre molto piacevole.

Lo ha sentito di recente?

Adesso saranno passati un paio d'anni, ma ogni tanto ci sentiamo. Se mi chiamasse domani, ricominceremmo a parlare come sempre.

A proposito degli artisti difficili con cui lei ha collaborato, cosa ci può dire di Harry Nilsson? Aveva una voce fantastica, ma non amava cantare dal vivo.

Era un artista incredibile. Ma non sopportava le stanze d'albergo e gli aerei. Devi essere molto motivato, in questo mestiere, perché quando sei in tour soltanto un paio delle 24 ore di una giornata sono piacevoli. Devi soffrire 22 ore per stare bene soltanto per due. Non è un equilibrio matematico. L'unica persona che capiva veramente questa cosa era Bill Graham (uno dei primi grandi organizzatori e manager della storia del rock, n.d.r.). Lui riusciva a mettere gli artisti a loro agio. Se suonavi per lui stavi in un bell'albergo, i camerini erano accoglienti, il cibo era ottimo. Lui capiva perfettamente che se sei felice, suoni meglio. Ma questa cosa è morta con lui. La gente adesso pensa solo a fare soldi e non si preoccupa dello stato d'animo di chi suona.

( by Giancarlo Susanna )  

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Music from Big Pink – Dylan and The band

Da qualche parte, nel bel mezzo dello sterminato archivio fotografico di Elliott Landy, riposa un vecchio scatto in bianco e nero. Impolverato e seducente, reclama un posto d'onore, ma anche un nascondiglio, per essere scoperto e vissuto con la sorpresa che merita. L'immagine è stata scattata nella campagna di Woodstock, a West Saugerties, stato di New York, nel 1968.
Una fatiscente panchina di legno è al centro dell'obiettivo: potrebbe accogliere al massimo tre persone, sedute pure scomode.
Quella mattina ce ne sono ben cinque, ritratte di spalle, mentre ammirano meditabonde lo spettacolo naturale che si para loro innanzi: un laghetto limpido e il sole mattutino che ne rischiara il manto argenteo. Sull'altra sponda, ancora terra, alberi spogli per l'inverno, le Catskill Mountains a chiudere l'idilliaco panorama. Quei cinque potrebbero essere stanchi cercatori d'oro usciti da un romanzo di Mark Twain, oppure giovani agricoltori vestiti di tutto punto nell'attesa di un domani migliore, come gli orgogliosi reietti di William Faulkner, John Steinbeck e Walt Whitman.
Invece sono musicisti, e stanno incidendo il loro disco d'esordio.
 


Un piccolo passo indietro

Ronnie Hawkins, cantante e pianista dell'Arkansas, è rocker ambizioso e arrogante, istrione di modesta fama e discrete qualità artistiche. Folgorato dalla black-music, ha abbandonato l'università e, per la prima volta, in un club dell'Oklahoma (1957) avuto modo di vedere e unirsi a una band di soli neri, i Black Hawks.
La prima registrazione ufficiale esce nel '58 da un polveroso garage col titolo di "Hey Bo Diddley" e la sigla Ron Hawkins Quartet. Alla batteria siede il conterraneo Levon Helm, allora diciassettenne: il primo elemento chiave di quella che si chiamerà Band arriva dal profondo sud, testimone oculare di mille spettacoli di strada ( minstrel shows ), dei concerti di Elvis Presley (prima della fama) o Bill Monroe o Sonny Boy Williamson. Sarà lui il motore di tante storie rurali, lui la fonte d'ispirazione delle fiabe narrate da Robbie Robertson. Ribattezzata definitivamente Ronnie Hawkins & The Hawks, la band incide per la Roulette i primi due album, un omonimo del '59 e "Mr. Dynamo", soprannome del Nostro, l'anno successivo. La mossa vincente, strategica, è pero un'altra: spostarsi dal circuito degli squallidi bar e locali della zona di Memphis e andare a nord, verso il Canada. Da quelle parti si vendono molti meno idoli rock n'roll, c'è meno concorrenza e una tardiva voglia di certa gioventù di scuotersi e ballare. Il gruppo, a bordo di una cadillac nera che sa di vecchia gang, trova ingaggi con facilità, un mare di ragazze e parecchie situazioni da rissa western aftershow.

La pesante routine di concerti provoca alcuni cambiamenti d'organico: uno dopo l'altro entrano tutti i futuri membri di The Band. Robbie Robertson (dal 1960) alla chitarra solista e Rick Danko al basso, seguiti entro il Natale '61 dai tastieristi Richard Manuel e Garth Hudson. Purtroppo la carriera stenta a decollare e vive una svolta nell'unico effimero momento di gloria, una cover di "Who Do You Love" dell'amato Bo Diddley (1963). A quel punto la band di supporto lo abbandona e comincia a girare Canada e States con la nuova sigla Levon & The Hawks.
Una vera miniera di influenze diverse: rock 'n'roll ma anche rockabilly, country, blues, gospel e r&b. I cinque Hawks si influenzano a vicenda, tessendo progressivamente un mélange sonoro che di lì a poco cementerà un sound inconfondibile. Suggestive anche le biografie: Robertson, figlio di un giocatore d'azzardo ebreo (morto quando lui era bambino) e di un'indiana Mohawk, vissuto in una riserva di Toronto con le orecchie perennemente sintonizzate sulle onde radio di Nashville; Rick Danko poco più a nord, germogliato insieme ai campi di tabacco sulle rive del lago Simcoe; poi Manuel, con la sua ossessione per l'alcool e il canto di Ray Charles; quindi Hudson, organista/bimbo prodigio, miscelatore folle di Bach e Chuck Berry nell'impresa di pompe funebri di proprietà dello zio.

 

 

La musica, tutto un programma: da una parte la sezione ritmica, precisa e tuonante e solenne ed evocativa; dall'altra l'organo di Garth Hudson, il più adulto e preparato musicalmente (con studi classici alle spalle), ma anche carismatico sperimentatore di sonorità e arrangiamenti. Nel mezzo, il lavoro di chitarra di Robbie, serpeggiante come nessuno, virtuoso senza spocchia, appassionato sostenitore di paesaggi melodici atipici. Le voci: il meraviglioso falsetto romantico/solitario di Richard Manuel fa da contraltare all'allegria campagnola/grossolana dei fascinosi Danko e Helm.
In due anni di tournée da soli, cinque ora a notte, i ragazzi hanno la possibilità di incidere una manciata di singoli e, soprattutto, farsi ammirare su un palco (estate '64) dal deliziato John Hammond Jr. Quest'ultimo, figlio ventenne del leggendario talent scout della Columbia John Hammond, offre loro la chance di incidere con lui a New York, backing band di lusso per un modesto (ancora!) cantautore di blues bianco. Quei due album saranno il preludio all'incontro decisivo con Bob Dylan, durante la fatidica estate del 1965. Il quintetto lo conosce a malapena, distante da quella nuova estetica aggressiva, heavy ante litteram , che il cantautore propone. Eppure…

Il nanetto di Duluth è in quel mentre nuovo profeta folk, osannato con la stessa intensità da musicisti, fan, critica, addetti ai lavori, giovani e anziani.
"I tempi" però, "stanno cambiando", come lui stesso del resto aveva predetto: stanco della tradizione e della ballata di protesta, Bob imbraccia per la prima volta una chitarra elettrica e si crea una band di supporto, deciso a eguagliare (e in cuor suo superare) la scossa tellurica socio/musicale ispirata dai Beatles. Ecco allora "Bringing It All Back Home", primo successo milionario, e il "battesimo rock" sul palco del Newport Folk Festival alla fine di luglio, con Al Kooper, Mike Bloomfield e 3/5 della Butterfield Blues Band.
Il primo contatto reale con gli Hawks arriva grazie all'amicizia di Robbie Robertson, emissario degli Hawks, tra l'altro fortemente sponsorizzati alle orecchie di Bob da Mary Martin, segretaria del suo manager Albert Grossman.

Robbie si crea un ottimo rapporto con Dylan, divenendone compare inseparabile: da qui ad apparire al suo fianco nel concerto di Forest Hills (27/08), con Levon Helm alla batteria, il passo è breve. Due set distinti, uno acustico e l'altro (fischiato dai vecchi fan "puristi") elettrico e sferragliante. Bob è entusiasta e sceglie proprio gli Hawks (complice l'abbandono di Kooper, Bloomfield e Harvey Brooks) per continuare le date dell'estenuante, leggendario tour mondiale del '65/'66. Quel giro di concerti, interviste, proteste e fusi orari sfianca profondamente il fisico e gli animi dell'allegra brigata: Helm lascia quasi subito (fine novembre), in perenne disaccordo con un nuovo leader che ha progressivamente usurpato il suo prestigio di carismatico capo tribù.
E così, tra cambi di batteristi (da Bobby Gregg a Mickey Jones per la tranche europea) e fischi giornalieri dai nemici dell'elettricità, si chiude una delle più storiche tournée del rock, momento chiave nell'evoluzione del giocattolo che prende consapevolezza di sé. Il tragico incidente motociclistico di Dylan nella campagna di Woodstock (29/07/'66) fa il resto.

Il ricovero è prolungato e Bob preferisce restare in pianta stabile in quel "buen retiro" di campagna, lontano da anfetamine e giornalisti. Impone il silenzio artistico per un anno intero, crescendo figli con la compagna Sara. Poi, qualcosa si sblocca. Hudson, Danko e Manuel decidono di prendere in affitto una grande villa dipinta di rosa (ribattezzata appunto "Big Pink") nelle vicinanze, e adibirne la spaziosa cantina a sala di registrazione/rifugio musicale. A pochi chilometri c'è la magione di Albert Grossman, con Robbie e consorte ospiti fissi, mentre Helm va e viene dal sud. Da quella quiete bucolica prendono forma i demos dylaniani in seguito editi col nome di "Basement Tapes" e, soprattutto, il materiale per il debutto col nuovo nome: The Band. L'atmosfera è pigra e rilassata, il clima mite permette piccole escursioni collettive nella macchia circostante, gite e lunghe chiacchierate con i vicini di casa, tra un picnic e una partita di football.

Il resto dell'avventura

La prima cosa che stupisce il pubblico rock è proprio il contenuto del disco d'esordio della Band (1/07/68, n. 30 nelle chart Usa), distante miglia da ciò che si era abituati a sentire sino a quel momento: non ci sono raga indiani, né brani lunghi dieci minuti o riferimenti a droghe che espandono la mente. In "Big Pink" non trovano spazio abiti sgargianti o strumenti etnici. I termini "virtuosismo", "solipsismo", "divismo" sono banditi dal vocabolario. Al contrario, ciò in cui gli ascoltatori (curiosi all'inizio più della presenza/evento di Dylan che altro) si imbattono è una "bittersweet celebration of old & young americas". La storia nascosta dietro quella strana copertina ad acquerello (regalo di Bob, accreditato in tre brani) riguarda il presente letto con gli occhi del passato, odora forte di vecchio west, cowboy e indiani, di Grande Depressione e ampi spazi aperti, senso di appartenenza e anelito all'evasione.

Nulla, neanche dieci anni di "professionismo" alle spalle, avrebbe lasciato pensare a un affresco così spettacolarmente nitido, da ascoltare parecchio prima di essere assimilato. C'erano le premesse, c'era il background . Dylan aveva preparato la strada col suo criptico "John Wesley Harding", registrato con musicisti locali a Nashville e uscito l'inverno precedente. In "Big Pink" c'è un collettivo in assoluta confidenza con i propri mezzi tecnici, con tutti i diversi linguaggi musicali imparati nel tempo (country, folk, blues, gospel, rock, soul, r&b), con un songwriting finalmente maturo. Più di tutto, una conoscenza profonda dell'America, dei suoi vizi e virtù, analisi rese acute e possibili grazie anche alla privilegiata prospettiva "esterna" di questi canadesi speciali, più statunitensi degli stessi nativi. I temi chiave dell'album sono la famiglia, la fede, l'amicizia, la discendenza, la libertà di scelta e la voglia di fuggire da un ordine schematico e precostituito. La guerra è lontana eppure presente sullo sfondo: la tragedia e l'ansia sono palpabili attraverso quei testi sfuggenti, enigmatici. Dalla musica si percepisce un sensazione di libertà, di jam session svagata tra vecchi amici polistrumentisti che scambiano le parti vocali come fossero spinelli: "Big Pink" è il frutto di cinque personalità fuse in una sola, cinque diverse visioni della patria compenetrate l'una con l'altra.
 


Sono undici canzoni che vanno dritte al cuore, che commuovono per semplicità, sincerità e immediatezza esecutiva. Il dialogo, il mettere in discussione le proprie radici si dimostra impegno populista che, alla lunga, finirà per influenzare parecchi colleghi e battezzare il risorgimento della roots music , il Grande Suono Americano codificato una volta per sempre.
Questo "antico libro dei giovani antenati" si apre con l'indolenza, l'amarezza di "Tears Of Rage", primo paragrafo della storia, con Dylan coautore.
L'elemento a venir fuori è la chitarra elettrica di Robbie filtrata attraverso uno speaker Leslie (altoparlante ad azione rotatoria originariamente concepito per modificare le sonorità dell'organo Hammond, poi sperimentato anche su voce e altri strumenti) che ne altera il suono, il tappeto d'organo di Garth e lo splendido lavoro di batteria di Levon, uno dei più grandi e sottovalutati batteristi di sempre. La voce di Manuel, a metà strada tra sentimentalismo e depressione da "grande freddo", inizia a inquadrare un conflitto padre-figlio. La faccenda sembra prendere una brutta piega: il desiderio di riconciliazione trascolora in risentimento, la rabbia per un dialogo tardivo e non favorito è evidente. Il figlio, un "homo novus" originale dell'America democratica, è alla ricerca di sé stesso, dell'amore e dell'amicizia dei suoi simili. La delusione del genitore è ineluttabile, punteggiata dal pianoforte e dal bel lavoro di ricamo dei due sassofoni nella seconda strofa. La festa dell'indipendenza evocata nel testo è rovinata dall'addio, ma è l'America intera a piangere lacrime amare, la patria afflitta dalla guerra.

Il dolore del padre continua in "To Kingdom Come", nient'altro che una riflessione zen sulla morte: l'anziano ammonisce le nuove generazioni a non commettere errori, a non rivelare anzitempo le proprie carte. Le parti vocali sono affidate alla gracchiante, stridula verve di Robertson, con Richard nei controcanti. Il tono è ironico e scherzoso, più naif rispetto al precedente. Il ritmo è girotondo vorticoso, con un bel ritmo dettato dal piano. Il vitello dorato è il primo di una serie di inquietanti figure bibliche e mitologiche a tormentare il sonno di Robbie, con Manuel l'autore principale dei testi: in questo caso la bestia è fuori della finestra e squadra minacciosamente il malcapitato vecchietto. "In A Station", annunciata dal piano elettrico e dal clavinette, è un'altra stupenda prova del "loner" Richard Manuel: si tratta di un'onirica ballad annacquata ancora di tristezza e senso d'abbandono.

C'è una gran voglia di nascondersi tra la folla e scomparire, immedesimarsi con chiunque si incontri per strada. Purtroppo il desiderio "cristiano" si scontra con il sospetto, la divisione di una società che smette di credere nell'amicizia.
Per quanto lui si sforzi (ancora un riferimento al frutto proibito dell'Eden), non c'è possibilità: ecco allora insoddisfazione e senso di debolezza. Il brano gioca tutto su questo senso di sospensione angelica.
Il "road trip" del protagonista si fa più reale con "Caledonia Mission", amarcord di un amore sfiorito. Il timone della storia lo prende Rick Danko: una ragazza di buona famiglia ebraica vive soddisfatta e autoreclusa in una missione del Sud. Viziata e conservatrice, non ha il coraggio di abbandonarsi alla fuga promessa dal musicista romantico e lavora infaticabile e prigioniera del suo giardino, del suo cancello chiuso a chiave. Il brano prende corpo e si infiamma nel ritornello, in cui si aggiunge anche Manuel ai backing vocals . Per quanto le voci si intreccino con vigore, unite a piano ed elettrica, la prospettiva ipertestuale non cambia.

Il centro, il messaggio di tutto l'album è racchiuso in "The Weight", edito anche a 45 giri, unico hit in carriera, poi inserito nella colonna sonora di "Easy Rider". Qui basterebbe la musica: apertura di chitarra acustica, pochi inimitabili arpeggi e ingresso ("Ba-dum-badum-dum") della batteria. Quindi il pianoforte e le voci. Nel mezzo splendidi cori a tre, fragili ed effimeri come un soffio di vento. E' la parafrasi del sound: artigianale, immediata, costruita sul felice equilibrio di pochi ingredienti azzeccati. Nell'Antico Libro c'è spazio per tutti, si lavora in squadra come provetti boy-scout. L'allucinazione dei testi è comica: gli incontri dell'eroe pellegrino (un po' Gesù Cristo, un po' Paperino o Don Chisciotte) a Nazareth in cerca di riposo e rifugio. Da notare la volontà del protagonista di assorbire senza interessi il dolore della gente, togliere il peso della vita dalle schiene stanche della società. La risposta ancora negativa, è tuttavia gestita con ironia e fatalismo.

La seconda metà dell'Antico Libro insiste sui temi enunciati all'inizio, sfumando e perdendo un po' del sapore nel finale. In "We Can Talk", un mid-tempo gospel sorretto da organo e piano/batteria, torna in scena il conflitto, ora tra coetanei: al posto dell'amata, un amico schiavo dell'opprimente condizione di lavoro. Il consiglio è ripensare a ciò che si è fatto, convincendosi che non è mai troppo tardi, ché il dialogo favorito nel titolo può sbaragliare l'aratro, le mucche e il giogo di un padrone ignorante.
Caso a parte è "Long Black Veil", unica cover del lotto (hit country per Lefty Frizzell nel '59, idolo di Robertson). L'atmosfera lugubre da murder ballad è reinterpretata senza pathos, in un'inedita chiave rilassata, con armonie vocali che crescono e la bella alternanza di tastiere e chitarra acustica. Solo un sinistro bordone di basso-tuba (?) incrina le onde.
La parte migliore della sfrenata "Chest Fever" è l'inizio, un'occasione per Garth Hudson di mostrare il proprio talento: infernale incipit di organo hammond, un virtuosismo da mosca bianca (che ricorderanno i Led Zeppelin al momento di incidere "Your Time Is Gonna Come") verniciato su impalcature, come abbiamo visto, piuttosto corali. Nel testo, così come nel dolcissimo slow tune "Lonesome Suzie" che seguirà, ennesimo tentativo di salvataggio eroe/principessa in pericolo. In "Fever" è la femme fatale autolesionista e distruttrice, una belva feroce da far tremare le ginocchia; "Suzie" è la solitaria-triste-anziana zitella bisognosa di calore umano. In entrambi i casi, la soluzione adottata dal protagonista è la medesima: fuga, libertà, nuova vita.

Peccato per gli ultimi due numeri, scritti in combutta con Dylan: si perde un po', come detto, l'unità narrativa, oltre agli arrangiamenti, sofferenti nel doversi confrontare troppo agli originali già in cantiere ai tempi dei "Basement Tapes". "This Wheel's On Fire" si distingue per l'arrembante tempo veloce, le armonie e l'affilata elettrica di Robertson. L'angoscioso testo minaccia un nuovo incontro tra nemici, due immaginari pistoleri nell'attesa di affrontarsi prima della fine, prima che il buio e la distruzione avvolgano ogni cosa. Il commiato di "I Shall Be Released", cantato da Manuel, riassume coi toni della "torch song" le fila del discorso: l'insanabile dicotomia debolezza/speranza, le distanze del cuore da colmare, il bisogno di dare e ricevere amore (simboleggiato nel brano dalla luce), la libertà come chimera da afferrare con un ultimo, titanico sforzo.

Riesci a immaginarti quella notte di tanti anni fa: l'illuminazione fioca delle candele, la cantina polverosa, cinque tempestosi Heatcliff con barba, cappelli e quel sorriso amaro capace di sgretolare la più dura delle rocce. "Any Day Now, Any Day Now, I Shall Be Released"…
A forza di cantare ed eccitarsi, commuoversi, è scesa la notte. Silenzio nelle verdi vallate di Woodstock, la luna si nasconde e le stelle giocano la solita gara di bellezza. Non un alito di vento, soltanto i gufi tra gli alberi secchi, il fiume che scorre, le foglie sul terreno asciutto. Da qualche parte, nelle vicinanze, l'uomo che un tempo chiamavano Dylan smette di scrivere a macchina. I suoi bambini dormono, è troppo tardi per cercare una melodia alla chitarra. L'album cui sta pensando sarà un'altra rivelazione: Johnny Cash, country-rock, voce morbida.
Parole inedite che escono piano dalla sua mente e si confondono in una nebbiolina di mercurio e argento vivo, eccitandolo. Ma è ora di dormire, domani è un altro giorno, non si sa mai. Via i vestiti, gli occhialini, le scarpe. L'ultimo sguardo assonnato è per un mucchio di negativi sparsi sulla scrivania di legno, lasciati lì da un amico fotografo. Sono le foto dei suoi amici della Band. La preferita, nemmeno a dirlo, riguarda una vecchia panchina scalcinata. "Quel bastardo è maledettamente bravo", esclama, prima di avvolgersi nelle lenzuola. "Devo assolutamente lavorarci".

Extra : musica influenzata dalla Big Pink: Fairport Convention, "Liege & Lief" (stesse premesse della Band, con la voglia però di riscoprire le proprie di radici, traghettandole nella vecchia Inghilterra vittoriana); The Byrds, "Sweetheart Of The Rodeo"; Rolling Stones, "Beggar's Banquet"; Elton John, "Tumbleweed Connection"; Grateful Dead, "Workingman's Dead" o "American Beauty"; Paisley Underground versante Green On Red; Alt. Country di sponda Uncle Tupelo, poi Wilco, Jayhawks, Lambchop. Insospettabili come Eric Clapton o Procol Harum, rei confessi del calibro di Will Oldham o Mercury Rev, superstar come Ryan Adams o Norah Jones. E la lista potrebbe essere lunga più del Mississippi, molto più di quei quarantadue minuti che, a questo punto, avrete una matta voglia di riscoprire.

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PROCOL HARUM – la band più raffinata

 

Quando si parla dell'organo Hammond, la mente non può non soffermarsi almeno per qualche istante a una canzone che nel 1967 fece innamorare milioni di ragazzini, vendendo 11 milioni di copie. Gary Brooker, cantante e pianista del gruppo compose quel "A Whiter Shade Of Pale" che costituirà il maggior successo del gruppo.

I Procol Harum sono stati un gruppo di rock progressivo britannico, tra i primissimi esponenti di tale corrente musicale negli anni sessanta: vengono considerati "uno dei gruppi più influenti nella storia del rockFranco Fabbri, Così il rock trovò Bach e perse l'innocenza, da L'Unità del 3 dicembre 2002" e "i profeti del suono orchestrale Riccardo Bertoncelli, Marco Fumagalli e Manuel Insolera, Il pop inglese, Arcana Editore, Roma, maggio 1974, pag. 40".

Storia dei Procol Harum

Quando si parla dell'organo Hammond, la mente non può non soffermarsi almeno per qualche istante a una canzone che nel 1967 fece innamorare milioni di ragazzini, vendendo 11 milioni di copie. Gary Brooker, cantante e pianista del gruppo compose quel "A Whiter Shade Of Pale" che costituirà il maggior successo del gruppo.

Le origini del gruppo: i Paramounts

Nel 1962 il tastierista diciassettenne Gary Brooker è il leader di un gruppo di rhythm 'n' blues, i Paramounts, nati all'inizio del decennio nella cittadina inglese di Southend-on-Sea (Essex) e formati oltre che da Broker dal chitarrista Robin Trower, dal batterista Barrie James Wilson e dal bassista Chris Copping: come molti altri gruppi che si affacciano sulla scena beat britannica, riescono ad ottenere un contratto con la EMI, e ad incidere il loro primo 45 giri nel 1963.

Nei tre anni successivi il gruppo pubblicherà sei singoli, di cui soltanto uno, Poison Ivy, cover di un classico dei Coasters, entrerà nelle classifiche britanniche a dicembre del 1963.

Nel 1966 i Paramounts accompagnano in tour Chris Andrews e Sandie Shaw: alla fine dello stesso anno però, sia per lo scarso successo dei loro 45 giri, sia per il desiderio di sperimentare strade nuove, Brooker decide di sciogliere il gruppo.

La nascita dei Procol Harum: A whiter shade of pale

All'inizio del 1967 Brooker incontra il paroliere Keith Reid (che diventerà l'autore di tutti i testi del gruppo e considerato sesto membro effettivo della band, al punto da essere inserito nella line-up del gruppo nelle copertine degli LP), che scrive il testo per una melodia composta dal tastierista: l'idea di Brooker nell'arrangiamento della canzone è quella di inserire un'introduzione strumentale (ripresa poi tra una strofa e l'altra) ottenuta sovrapponendo il basso del secondo movimento della Suite per orchestra n. 3 di Johann Sebastian Bach BWV 1068 (conosciuta anche come Aria sulla quarta corda) con una melodia presa da un'altra opera del musicista tedesco (BWV 645, il Corale in Mi bemolle maggiore Wachet auf, ruft uns die StimmeNel 2005 Matthew Fisher intenterà una causa contro Gary Brooker sostenendo di aver collaborato a scrivere la musica dell'introduzione di A Whiter Shade of Pale).

Il tutto viene suonato dall'organo Hammond (filtrato tramite l'effetto Leslie): ottenuto tramite il produttore Denny Cordell un contratto con una piccola casa discografica, la Regal Zonophone Records (distribuita dalla Decca RecordsNegli Stati Uniti ed in Italia il disco sarà pubblicato dalla Deram, sempre appartenente alla Decca, mentre le successive pubblicazioni nella penisola saranno stampate dalla IL, sotttoetichetta della RCA Italiana), e scelto il nome di Procol Harum (che deriva da una storpiatura del nome del gatto di un amico di Cordell, "Procul Harum", che peraltro in latino viene tradotto come "lontano da queste cose"), il tastierista registra la canzone con alcuni session-man (alcuni contattati tramite un annuncio su una rivista musicale britannica), tra cui l'organista Matthew Fisher, ed in pochi giorni il disco arriva in testa alle classifiche britanniche (negli Stati Uniti raggiunge il quinto posto).
 

La versione originale della canzone presenta due strofe in più, tagliate durante la registrazione per contenere la durata del brano entro i quattro minuti (durata media del lato di un 45 giri), ma recuperate da Brooker durante le esibizioni dal vivo. Sin dalle prime apparizioni alla batteria vi è Bobby Harrison, che non è il batterista che ha suonato durante la registrazione della canzone: costui, Bill Eyden, è un batterista jazz che era stato chiamato appositamente da Denny Cordell per la registrazione e che continuerà in seguito la sua attività di jazzista (nella versione stereo della canzone pubblicata solo nel 1997 in un'antologia viene recuperata una registrazione dove invece, alla batteria, vi è Harrison).

In Italia uno dei primi ad ascoltare il brano è Mogol, che all'epoca lavora presso la Dischi Ricordi e che scrive un testo in italiano (completamente diverso dall'originale di Reid) per i Dik Dik con il titolo Senza luce: il disco viene pubblicato il 20 Agosto e va subito al primo posto in classifica, restando complessivamente in hit parade per diciassette settimaneQuesti dati sulle posizioni in classifica e quelli citati successivamente sono ricavati dal volume di Dario Salvatori, Storia dell'hit parade, edizioni Gremese, 1989, alle voci degli anni 1967 e 1968, pagg. 25-27, Camaleonti, pag. 97, Dik Dik, pag. 125, e Procol Harum, pag. 209, e dalle classifiche pubblicate nel 1967 dal mensile Musica e dischi e dai settimanali Big e TV Sorrisi e Canzoni.

Anche la versione originale dei Procol Harum (in Italia pubblicata dopo quella dei Dik Dik) raggiungerà il primo posto nella classifica italiana (rimanendovi dal 18 ottobre al 6 dicembre), restando complessivamente ventun settimane in hit parade, caso quasi unico per una canzone di cui era già uscita la cover.

Le vendite in Italia saranno così elevate che Gary Brooker invierà una lettera ai Dik Dik ringraziandoli per le royalties che gli arrivavano come diritti d'autore dalla SiaeTestimonianza rilasciata in numerose occasioni da Pietruccio Montalbetti; ad esempio durante l'intervista effettuata da Giancarlo Magalli nel corso della partecipazione del gruppo alla trasmissione I fatti vostri in alcune puntate ai primi di novembre del 2007.

Il successo

Dopo il fulmineo successo di "A Whiter Shade of Pale", i Procol Harum dopo l'estate incidono un altro 45 giri che ottiene altrettanto successo, Homburg: anche questo brano viene inciso in italiano (con il titolo "L'ora dell'amore" ed il testo scritto da Daniele Pace) dai Camaleonti, ed arriva al primo posto in classifica (dal 26 gennaio al 2 febbraio), restando complessivamente in hit parade per undici settimane; la versione dei Procol Harum vi rimane invece per otto settimane, non andando oltre al settimo posto.

Il gruppo inizia quindi le registrazioni dell'album, ma sia Ray Royer che Bobby Harrison dopo pochi giorni abbandonano il gruppo (in seguito i due formeranno un nuovo gruppo, i Freedom): Brooker decide quindi di contattare due suoi vecchi amici ex Paramounts, il chitarrista Robin Trower e il batterista Barrie James Wilson, ed è questa formazione che pubblica a dicembre del 1967 l'album Procol Harum, che non contiene i quattro brani pubblicati su 45 giri (solo l'edizione americana includerà A whiter shade of pale, mentre la versione della canzone sul retro di Homburg, Good captain clack, è in una registrazione differente).

Il disco è scritto interamente da Brooker e Reid, tranne "Repent Walpurgis", un brano strumentale eseguito interamente con piano e organo e firmato dal tastierita Matthew Fisher, e che verrà pubblicato anche su 45 giri sei anni dopo; la formazione dell'album rimarrà stabile per tre anni.

Nel marzo del 1968, visto il successo ottenuto nella penisola, incidono in italiano Il tuo diamante, cover di Shine on Brightly con testo ancora una volta di Mogol, che entra in classifica per sette settimane, non superando però il diciannovesimo posto; tengono inoltre una serie di concerti, tra cui al Piper Club di Roma, a Napoli, a Milano e a Torino, ed anche la Rai dedica loro uno speciale di mezz'ora, trasmesso dal primo canale.

La versione originale di Shine on Brightly è contenuta nel loro secondo album, pubblicato qualche mese dopo, e con lo stesso titolo: il disco non viene pubblicato in Italia fino al 1971, e per qualche tempo i fan italiani conosceranno solo la versione tradotta di questa canzone (che viene inserita nella stampa italiana del primo album); l'LP è comunque molto curato, e comprende anche una suite, In held twas in I, composta da 5 movimenti.

 

Gary Brooker

Ottengono notevole fama l'anno successivo con la canzone "A Salty Dog", adottato in Italia come sigla per il programma della RAI Avventura, e contenuta nel disco omonimo: anche quest'album, come i precedenti, è un successo nella loro patria e negli Stati Uniti, ma alla fine dell'anno sia Fisher che Knights abbandonano il gruppo, sostituiti da un altro ex-Paramounts, il bassista Chris Copping, e i Procol Harum iniziano il nuovo decennio in quattro.

Col l'avvento dell'ondata di rock progressivo britannico (Genesis, Yes, Emerson Lake & Palmer tra i più noti), il gruppo con Home e Broken Barricades (che contiene una canzone dedicata a Jimi Hendrix, Song for a dreamer) non riesce a ripetere in patria il successo dei dischi precedenti (che invece negli Stati Uniti continuano a vendere bene), e pian piano affievolisce il proprio impatto commerciale sebbene rimane tra i "maestri" del genere.

Dopo Broken Barricades anche Trower (che entrerà poi nei Jude) abbandona i Procol Harum, che decidono di ritornare ad una formazione a cinque con l'ingresso di Alan Cartwright (bassista proveniente dagli Everly Wich Way) e Dave Ball (ex chitarrista dei Big Bertha), e registrano nel mese di novembre 1971 un album dal vivo registrato in Canada e pubblicato l'anno successivo, Procol Harum Live with the Edmonton Symphony Orchestra, che li riporta al successo anche in Gran Bretagna, dove rientrano anche nella classifica dei 45 giri con una versione di Conquistador tratta ddal disco dal vivo e con una ristampa di A whiter shade of pale (abbinata con A salty dog).

Nel 1973, durante le registrazioni di Grand Hotel, Dave Ball viene sostituito da Mick Grabham (proveniente dai Cochise), che completa il disco, uno dei migliori del complesso, con la bella A rum tale (che nel 1998 verrà tradotta ed incisa in italiano con il titolo Storia di una bottiglia da Mimmo Locasciulli.

L'album del 1974, Exotic Birds and Fruit, delude i fans di vecchia data per le sue sonorità vicine all'hard rock, mentre tornano in hit parade l'anno successivo con il 45 giri Pandora box, tratto dall'album Procol's Ninth.

Il declino ed il ritorno sulle scene

Gli album Rock rootse Something Magic passano inosservati: in Inghilterra nasce il pumk e d il tipo di sonorità dei Procol Harum sono indissolubilmente legate al passato, ed il gruppo si scioglie nel 1977 senza suscitare grandi clamori, lasciando via libera alla carriera solista di Brooker, più che altro come componente aggiunto dal vivo della band di Eric Clapton ed altre partecipazioni sporadiche (da segnalare quella come vocalist nella canzone "Limelight" degli Alan Parsons Project, contenuta nell'album del 1985 "Stereotomy").

L'8 ottobre 1990 muore a Corvalis nell'Oregon il batterista e membro fondatore del gruppo B.J. Wilson, dopo tre anni di coma; in seguito a tale triste evento gli altri membri fondatori della band decidono di tornare a registrare un nuovo album, The Prodigal Stranger, che di fatto segna il ritorno dei Procol Harum sulle scene senza però sortire particolari effetti a livello di pubblico.

Il 29 novembre 2007 si esibiscono al Palasport di Torino, insieme ai New Trolls, e l'esibizione viene registrata in previsione di un nuovo album dal vivo.

Procol Harum : A Salty Dog

Difficile separare il nome dei Procol Harum dalla canzone che li ha resi popolari nel mondo nel lontano 1967, ossia "A Whiter Shade of Pale"... quel giro di organo Hammond di Gary Brooker , ispirato a Bach, è stato uno dei simboli sonori degli anni 60, e non solo, dato che il 45 giri del pezzo fu protagonista di clamorosi rientri nelle classifiche mondiali più volte negli anni successivi, al punto da infrangere la barriera dei 10 milioni di copie vendute.

In Italia, la band fu oggetto di attenzioni particolari da parte degli artisti nostrani, visto che sia i Dik Dik ("Senza luce") che i Camaleonti ("L'ora dell'amore", ossia "Homburg") , spopolarono con rifacimenti dei loro pezzi. Ma i Procol Harum, sebbene associati ineluttabilmente a quel classico, furono capaci di produrre altra buona musica, e nel 1969 fecero uscire il loro terzo lavoro, ossia questo "A Salty Dog" , che nel nostro paese ebbe comunque una eco particolare, e chi ha la mia età o qualcosa di più forse si ricorda in quale contesto.

Per chi non è intorno agli "anta" come il sottoscritto, chiarisco che a metà degli anni 70 esisteva in Rai un programma seguitissimo dai giovanissimi di allora, che si chiamava "Avventura", ed era una trasmissione dedicata ai documentari sulla natura o su particolari imprese di esplorazione in luoghi impervi o sconosciuti. La sigla di apertura era cantata da Joe Cocker, una cover di "She came in through the bathroom window" dei Beatles, e la sigla di chiusura era proprio "A Salty Dog" dei Procol Harum. Chi si ricorda di tutto questo, forse, come me ancora associa le prime note di archi e pianoforte del pezzo (con il rumore del mare e i versi dei gabbiani) al tramonto sul mare (in bianco e nero, purtroppo, ma bastava sognare i colori...) della sigla, e forse, come me, si emoziona come allora...

"A Salty Dog" è una delle melodie più straordinarie della storia del rock, senz'altro al livello dei più grandi classici dei Beatles, nella quale tutto suona meravigliosamente...... dalla voce di Gary Brooker, delicata e potente nello stesso tempo, al sottofondo degli archi orchestrali, alla scelta delle pause e dei crescendo. Il testo riguarda la storia di tragedia e di speranza di un gruppo di sopravvissuti ad un naufragio, tema ricorrente nella discografia della band, se si pensa a "The wreck of the Hesperus" presente in questo stesso disco, e in "Whaling Stories" dal precedente "Shine on brightly". Di fronte ad un tale classico, il resto dell'album a che livello si colloca? A mio avviso si tratta di un livello più che buono; i restanti brani vanno ascoltati e valutati in sé, altrimenti il paragone potrebbe ingiustamente deprezzarli. In particolar modo trovo eccellente la triade finale del lato B (ho ancora il disco in vinile...), formata dalla ballata pianistica "All this and more", dal blues caldo ed intenso di "Crucifixion Lane", e da "Pilgrims Progress", quest'ultima con qualche similitudine con "A Whiter shade of Pale", soprattutto nell'uso dell'organo in sottofondo, e comunque assolutamente non ripetitiva rispetto al suddetto classico. Vanno segnalati con piacere anche due episodi a base di chitarra acustica: la delicata e raffinatissima "Too much between us", che forse potrebbe interessare ai fans di Nick Drake, e "Boredom", che, a dispetto del titolo non è affatto noiosa, anzi, il flauto e le percussioni le conferiscono una frizzante atmosfera da festa hippie....

I Procol Harum poi tirano fuori gli artigli (a modo loro, beninteso...) in "The Devil came from Kansas", il brano più assimilabile al rock duro, e si reimmergono nel clima tragico delle (dis)avventure marine in "The wreck of the Hesperus", mentre "Jiucy John Pink" è un blues molto "standard", con Robin Trower protagonista. "The milk of human kindness" è invece il brano meno memorabile del disco.

Un'ultima nota sullo stile dei Procol Harum; secondo me, aldilà delle ovvie influenze, rintracciabili nella musica classica e nel blues soprattutto, questo gruppo aveva un suono molto originale (attenzione ho detto originale, non rivoluzionario), e non facilmente etichettabile. Un altro punto a loro favore. Peccato che però nei (pochi) lavori successivi ci sia stato un prematuro declino. Per la cronaca la band si è riformata nei primi anni 90, ma non è stata capace di suscitare clamori particolari intorno a sé.

Comunque, pur non essendo un capolavoro (tranne la title-track che invece lo è, eccome!) , "A Salty Dog" va riascoltato o scoperto, perché merita.

il testo della canzone "A Salty Dog"

"all hands on deck, we've run afloat! I heard the captain cry
explore the ship, replace the cook: let no one leave alive!
Across the straits, around the horn: how far can sailors fly?
A twisted path, our tortured course, and no one left alive

We sailed for parts unknown to man, where ships come home to die
No lofty peak, nor fortress bold, could match our captains eye
Upon the seventh seasick day we made our port of call
A sand so white, and sea so blue, no mortal place at all

We fired the gun, and burnt the mast, and rowed from ship to shore
The captain cried, we sailors wept: our tears were tears of joy
Now many moons and many junes have passed since we made land
A salty dog, this seamans log: your witness my own hand
"

 

Formazione

1967

  • Gary Brooker: Voce principale, pianoforte
  • Matthew Fisher: Organo hammond, voce secondaria
  • Ray Royer: Chitarra, voce secondaria
  • David Knights: Basso
  • Bobby Harrison: Batteria
  • Bill Eyden: Batteria (solo per A whiter shade of pale)

 1967-1969

  • Gary Brooker: Voce principale, pianoforte
  • Matthew Fisher: Organo hammond, voce secondaria
  • Robin Trower: Chitarra, voce secondaria
  • David Knights: Basso
  • Barrie James Wilson: Batteria

 1969-1971

  • Gary Brooker: Voce principale, pianoforte
  • Chris Copping: Organo hammond, Basso
  • Robin Trower: Chitarra, voce secondaria
  • Barrie James Wilson: Batteria

 1971-1973

  • Gary Brooker: Voce principale, pianoforte
  • Chris Copping: Organo hammond, Basso
  • Alan Cartwright: Basso
  • Dave Ball: Chitarra
  • Barrie James Wilson: Batteria

 1973-1977

  • Gary Brooker: Voce principale, pianoforte
  • Chris Copping: Organo hammond, Basso
  • Alan Cartwright: Basso
  • Mick Grabham: Chitarra
  • Barrie James Wilson: Batteria

 1991-1996

  • Gary Brooker: Voce principale, pianoforte
  • Matthew Fisher: Organo hammond, voce secondaria
  • Robin Trower: Chitarra, voce secondaria
  • Mark Brzezicki: Batteria
  • Dave Bronze: Basso

 1996-oggi

  • Gary Brooker: Voce principale, pianoforte
  • Matthew Fisher: Organo hammond, voce secondaria
  • Geoff Whitehorn: Chitarra, voce secondaria
  • Mark Brzezicki: Batteria
  • Matt Pegg: Basso

 Discografia

33 giri e CD

  • 1967 - Procol Harum (Regal Zonophone Records nel Regno Unito e Deram Records in Usa)
  • 1968 - Shine on Brightly (Repertoire)
  • 1969 - A Salty Dog (Regal Zonophone Records)
  • 1970 - Home (Regal Zonophone Records)
  • 1971 - Broken Barricades (Chrysalis)
  • 1972 - Procol Harum Live with the Edmonton Symphony Orchestra (Chrysalis)
  • 1973 - Grand Hotel (Chrysalis)
  • 1974 - Exotic Birds and Fruit (Chrysalis)
  • 1975 - Procol's Ninth (Chrysalis)
  • 1976 - Rock roots (Chrysalis)
  • 1977 - Something Magic (Chrysalis)
  • 1991 - The Prodigal Stranger
  • 1996 - The Long Goodbye
  • 2003 - The Well's on Fire
  • 2007 - Secrets of the Hive

 45 giri

La casa discografica indicata è quella che ha pubblicato il disco in Italia; come ricordato nel testo della voce, spesso non coincideva con quella che aveva stampato il disco in Gran Bretagna

  • 1967 - A whiter shade of pale/Lime street blues (Deram, DM 126)
  • 1967 - Homburg/Good captain clack (IL, NIL 9002)
  • 1968 - Il tuo diamante/Fortuna (IL, NIL 9005)
  • 1969 - A salty dog/Long gone geek (IL, NIL 9017)
  • 1972 - A whiter shade of pale/A salty dog (Cube, 2016 013)
  • 1974 - Repent valpurgis/Kaleidoscope (Cube, 2016 078)
  • 1977 - A whiter shade of pale/Homburg (Cube, 2016 094)

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I Miti cambiano............in peggio ?
Dimmi che lampada hai e ti dirò chi sei. Il nuovo vocabolario dei trentenni di oggi. Single con casa a carico

Anna: “L’altra sera mi si è fulminata la Tolomeo, sono inciampata sul Rope della Urquiola e mi è caduto il Nano dalla Baguette! Fortuna che è finito sulla Barcellona che ha attutito il colpo altrimenti sai che disastro.”

Paolo: “A proposito, sai che mi sono arrivati i Ribbon colorati da mettere intorno alla K2. Finalmente possiamo mangiare in cucina!”

Vi ricordate la sequenza iniziale del film Fight Club con Brad Pitt e Edward Norton? Quella col protagonista che si muoveva all’interno del suo appartamento mentre apparivano sullo schermo le scritte dei vari mobili IKEA? Sono passati quasi dieci anni e probabilmente se il regista David Fincher dovesse rigirare quella scena oggi, in sovrimpressione, insieme ai pezzi di IKEA, aggiungerebbe una serie di nomi diversi come: Cappellini, Vitra, Kartell; Flos. Insomma una serie di arredi di alto design al quale ormai nessun single che si rispetti rinuncerebbe mai. Si perché, se una volta i miti dei trentenni erano Bob Dylan e Kubrick, oggi sulle pagine di MySpace, tra gli Heroes, si sprecano le foto-icona di Tom Dixon, Ron Arad e Zaha Hadid ,.....mha !

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BOB DYLAN DRITTO IN VENA

Chi è davvero Bob Dylan? Il regista Todd Haynes prova a risponderci mettendo in scena ben sei diverse identità: un musicista folk in piena ascesa, un attore in stile James Dean, un bambino che vaga nel sud dell’America, un giovane che dice di essere Arthur Rimbaud, uno strano cowboy sul viale del tramonto e un cantante appena trasferitosi in UK.

Siete avvertiti: Io non sono qui non è l'ennesimo biopic, in realtà si tratta di un viaggio nell’anima del musicista più geniale del nostro tempo. Non viene raccontata una storia, ma vengono analizzati i diversi strati di questa leggenda. Il cantautore si confonde con i personaggi dei suoi dischi, il tutto all'interno di un setting che va dagli anni '60 fino all'inizio degli anni '80.

Per Haynes questo è il secondo film sul mondo della musica: già nel 1998, infatti, il regista ha diretto l’interessante Velvet  Goldmine, pellicola interpretata da Ewan McGregor che raccontava il mondo del Glam Rock.  
Io non sono qui è una specie di zapping esistenziale nella vita di Bob Dylan: lo vediamo conquistare le masse attraverso il folk, tradirle col passaggio alla musica elettrica, sconvolgere il popolo britannico col tour del '65 fino all'incidente del 1966 che gli causò un lungo ritiro dalle scene.

L'intera pellicola è filmata come fosse un documentario: Haynes ci affoga nelle sue immagini che spaziano dal bianco e nero londinese ai coloratissimi paesaggi americani e che si fanno psichedeliche (citando perfino Lynch) con abbastanza kitsch per descrivere al meglio quel periodo storico.
Fedele alla sua filmografia, Haynes fa di ogni immagine un dipinto sul quale si diverte a passare il pennello più volte e, nonostante questo, non c'è traccia di sbavature.

Sebbene si tratti di un'opera su Dylan, il nome del musicista non viene mai pronunciato, ma lo spettatore appassionato si divertirà a scovare tutti quegli indizi che il regista inserisce nella pellicola. Noterete, ad esempio, alcune copertine degli album dylaniani rivisitate, è il caso di The Freewheelin' in cui Christian Bale passeggia al freddo con la stessa giacca indossata dal cantautore.

Il lavoro svolto dal regista nel trasformare i suoi attori nel mito è impeccabile: se è bizzarro vedere Bale passare da folk star a predicatore cristiano, allora rimarrete stupiti della somiglianza di Cate Blanchett al musicista.
L'attrice, a lungo corteggiata dal regista, è uno spettacolo sia nella sua metamorfosi fisica (con tanto di capelli dell'epoca Blonde on Blonde), che nell'uso dello stesso timbro di voce nasale del musicista.
Ma la vera gioia del film è vedere il piccolo Marcus Carl Franklyn mostrarci il genio di Dylan sin dalla sua infanzia e intonare melodie al capezzale del grande Woody Guthrie.
Il duo Heath Ledger - Charlotte Gainsbourg ci racconta la vita sentimentale tormentata del musicista ed infine Richard Gere è il più inedito di tutti: un Billy the Kid in una città misteriosa che sembra uscita dal Big Fish di Tim Burton.

A meno che non siate fan accaniti (e ossessionati) di Bob Dylan, Io non sono qui vi potrà confondere;  non potrete, però, negare che si tratta di un esperimento unico.
Medaglia d'oro al regista per la scelta impeccabile delle musiche, tra cui menzioniamo una splendida performance di Ballad of a Thin Man al piano.
Nei titoli di coda, dopo un'inquadratura finale che riesce a catturare perfettamente l'immortalità di Dylan, il regista alza il volume per la mitica Like a Rolling Stone.
Con Io non sono qui Todd Haynes riesce ad iniettare nelle vene dello spettatore l'anima di Bob Dylan, offrendo una vera esperienza cinematografica.
 

 

Mercoledi 2 Aprile 2008
 

VOLEVO SOLO FARVI CONOSCERE QUESTA INIZIATIVA A PARMA, CHE RIGUARDA ANCHE IL NOSTRO.

CIAO A TUTTI
MAURA

 

Ecco fatto , ciao e grazie.

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Parole nel vento: un raccolta di saggi su Bob Dylan

Notizia di sicuro interesse per gli appassionati del menestrello: il 19 aprile uscirà per Interlinea una raccolta di saggi dedicati alla figura del cantautore americano che ha segnato più di un’epoca.

L’antologia, dal titolo Parole nel vento, raccoglie testi tutti inediti in Italia ed è curata da Alessandro Carrera, scrittore e critico musicale, docente di letteratura in diverse università degli Stati Uniti e del Canada. Dal primo profilo dylaniano sul New Yorker del 1964, fino a In memoriam. Benvenuti ai ‘Tempi moderni’ di Bob Dylan di Stephen Hazan Arnoff, direttore editoriale della rivista Zeek.

Parole al vento è presentata come “una raffinata biografia intellettuale” di una delle voci più significative della musica mondiale. Una lettura affascinante probabilmente per tante generazioni e non solo per qualche nostalgico degli anni Sessanta, considerando che il suo ultimo disco, Modern Times, è arrivato in vetta alle classifiche internazionali.

la copertina (provvisoria) del libro

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MICHELE MURINO

BOB DYLAN
Percorsi - Vol.2 - Dylan and friends

F.to 16x23, € 10,00

 

IL TESTO E L'AUTORE

  In 50 anni di musica, dalla fine degli anni Cinquanta ad oggi, moltissimi artisti hanno incrociato la strada di Bob Dylan, alcuni percorrendola con lui per molti anni, altri accompagnandolo solo per qualche "chilometro" e deviando ai vari "incroci".
  Dai Beatles ai Rolling Stones, da Elvis Presley a Joan Baez, da The Band a Tom Petty, da Neil Young a Jimi Hendrix, fino a Bruce Springsteen, a Bono Vox ed ai Grateful Dead, e a molti altri amici "incontrati lungo il cammino".
  In questo secondo volume di "Bob Dylan - Percorsi" ripercorreremo le tappe di questo "viaggio" musicale ed umano che si è sviluppato in cinquant'anni di rivoluzioni più o meno grandi, musicali e sociali, e che hanno avuto come comun denominatore quel fondamentale linguaggio che ha caratterizzato in maniera determinante l'arte popolare nella seconda metà del secolo scorso: il Rock.

  MICHELE MURINO è nato a Pompei nel 1964. Vive e lavora ad Aosta dove ha creato il sito italiano di Bob Dylan, "Maggie's Farm" (www.maggiesfarm.it), on line dal 1999, di cui è curatore e per il quale ha scritto numerosi articoli e saggi. Ha scritto - insieme ad Alessandro Carrera, Benedicta Froelich e Michele Salimbeni - una piece teatrale ispirata alla figura di Bob Dylan dal titolo "Un giorno tutto sarà calmo", che ha esordito nel mese di aprile del 2005 per la regia di Michele Salimbeni. E' anche l'ideatore ed autore della serie "Zimmy", un fumetto dedicato a Bob Dylan, pubblicato sulle pagine di Maggie's Farm ed in seguito approdato sulle pagine della rivista di fumetti "The Artist".Ha contribuito al volume di Cesare Rizzi dedicato a Bob Dylan, pubblicato nella collana Atlanti Musicali dell'Editore Giunti (2004). Altri volumi che lo hanno visto in veste di autore sono la monografia della serie "Jam - Rock Files" dedicata a Bob Dylan ed il volume "Bob Dylan" pubblicato nella collana "Legends", da Editori Riuniti, (2005). Ha scritto vari articoli e saggi per le riviste "Jam", "Eureka", "Bhang", "Fumo di China". E' l'autore dei testi dello spettacolo teatrale "All you need is Rock", andato in scena a partire dal 2006, ispirato alla storia di Bob Dylan e dei Beatles, per l'esecuzione dei gruppi musicali Blackstones e Beatland. Nel 2007 ha collaborato ai volumi della collana "Musica & Parole" (Bastogi), "Tarantula" (Feltrinelli) ed ha curato con Alessandro Carrera e Santo Pettinato il volume "Parole nel vento" (Edizioni Interlinea). Per Bastogi ha pubblicato il primo volume di "Bob Dylan - Percorsi" nel 2006.

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Dylan : Tutte le date dell'European tour 2008      clicca qui

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Edie Sedgwick  : per lei Dylan scrisse “Like a rolling stone” ?

Registrata negli studi del produttore Tom Wilson durante una snervante due-giorni, tra il 15 e il 16 Giugno del 1965, e pubblicata per la prima volta lo stesso anno all’interno dell’album Highway 61 revisited, Like a Rolling Stone è probabilmente la più celebre e influente canzone mai scritta dal leggendario cantante, menestrello, poeta americano Bob Dylan (il cui vero nome è Robert Allen Zimmerman), nato nel 1941 a Duluth, Minnesota.

Uscì come 45 giri il 20 Luglio 1965, e nonostante la sua lunghezza (più di sei minuti, il doppio della durata richiesta dalle radio ai tempi) divenne il più grande successo di Dylan, rimanendo per tre mesi nelle classifiche americane, battuta solo da Help! dei Beatles. All’esordio live della canzone al Newport Folk Festival è legata anche la celebre “svolta elettrica” di Bob Dylan, raccontata anche nel recente film I’m not there di Todd Haynes, che divise i fan (allontanando quelli più legati alla tradizione folk e abituati a vederlo suonare da solo con chitarra e armonica) e segnò un momento fondamentale e irripetibile nella storia del rock americano.

L’esordio live della canzone, al Newport Folk Festival, il 25 Luglio 1965.

Si è sempre discusso molto sul significato della canzone, fin dai tempi della sua pubblicazione: l’interpretazione più comune riguarda la musa di Dylan e di Andy Warhol, Edie Sedgwick (a cui si dice sia dedicata anche “Just like a woman”) anche se sulle date della vicenda le diatribe storiche sono molte: tanto che il testo potrebbe riferirsi anche alla cantante Joan Baez. Ma sono in molti a vedere nel testo un significato più profondo, come Mike Marqusee, che scrisse appunto molte pagine riguardo i problemi di Dylan con il suo passato folk, e le cause politiche intraprese dall’autore in quegli anni: Like a Rolling Stone sarebbe quindi un pezzo assolutamente autoreferenziale.

La canzone è così famosa e importante per lo sviluppo e la storia della musica rock negli Stati Uniti che la rivista Rolling Stone nel 2004 la decretò come la più grande canzone di tutti i tempi, non arbitrariamente ma sulla base di un sondaggio proposto a ben 172 rilevanti figure del settore musicale. In un’intervista dello stesso anno, Dylan commentò la notizia con schietto cinismo nei confronti delle classifiche, aggiungendo “Questa settimana è così, ma sai, chi può dire quanto durerà?”.

Come spesso accade per i grandi classici del rock, anche Like a Rolling Stone ha conosciuto un numero sterminato di “coverizzazioni”, da Jimi Hendrix a Cher, da Neil Young a Michael Bolton, da Bob Marley ai Replacements. Probabilmente la versione più famosa è quella dei Rolling Stones , pubblicata nell’album Stripped del 1995, la leggendaria band che condivide con la canzone di Dylan quello stesso nome, nome pescato da un vecchio successo del bluesman Muddy Waters , ma nello slang newyorkese un " rolling stone " è anche uno straccione , un poveraccio che ha preso la strada sbagliata , uno che vive fuori dalle righe , una persona da evitare e compatire .

( Dean Spencer )

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BOB DYLAN A GIUGNO CHIUDE TOUR ITALIANO IN VALLE D'AOSTA            clicca qui

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Edie Sedgwick - Sienna Miller - FACTORY GIRL    clicca qui

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Video - Paul McCartney parla di Bob Dylan               clicca qui

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Mick Jagger   

 

DI Gerri Hirshey
 

Partiamo dal catalizzatore di tanti fermenti culturali degli anni 60: gli adolescenti.

«Oh mio Dio».

Non concordi sul fatto che i figli del boom post Seconda guerra mondiale accelerarono una rottura generazionale?

«Non del tutto. La prima rottura culturale si ebbe addirittura negli anni 20, quando le ragazze iniziarono a indossare abiti corti e si rifiutarono di portare il reggiseno. Il fenomeno jazz fu sfrenato e chi aveva soldi provava un mucchio di droghe, o si ubriacava. Dopo la Prima guerra mondiale ci fu una grossa cesura culturale e musicale, grazie al jazz. Mia madre conosceva i balli scatenati degli anni 20, come il charleston e il black bottom, e me li insegnò».

Proprio un bel quadretto, tu e mamma nel salotto di casa Jagger...

«Adoravo fare quattro salti. Mia madre ballava spesso il jitterbug, allora lo chiamavamo jiving. Quelle ragazze che saltavano come forsennate avevano molta più libertà di prima. Intorno agli anni della Seconda guerra mondiale ci fu una grossa ribellione espressa negli abiti, vedi gli zoot suit dell'era swing. In Inghilterra, ciò volle dire teddy boys a inizio anni 50».

D'accordo, ma in un contesto più ampio la rottura degli anni 60 fu più vistosa, sistematica...

«Ok, gli anni 60 rappresentarono un grosso cambiamento, ma era pur sempre uno sviluppo dei tempi di Elvis. La sessualità dell'Elvis dei primi anni fu molto più scioccante per il pubblico medio di I Want to Hold Your Hand dei Beatles, che era insipida. Aveva le sue attrattive e la amavano tutti, me compreso, ma non aveva carica erotica. I selvaggi, tipo Elvis e Jerry Lee Lewis, facevano più paura, specie da un punto di vista sessuale».

La rivoluzione iniziale degli Stones consistette nel rivisitare certa musica palesemente sexy come il blues americano e renderla rock. Ma al contempo gli artisti neri della tua generazione, Smokey Robinson e Isaac Hayes, da adolescenti evitavano come la peste il blues, considerandolo la musica dei loro genitori. Che cosa ti attirò verso il blues?

«A 12 o 13 anni non sapevo cosa fosse il blues. Mi piaceva la musica pop bianca. Magari Connie Francis. Ascoltavo la sua Who's Sorry Now e Big Bill Broonzy per interi pomeriggi. Esisteva un'unica stazione televisiva, la Bbc, e i programmi li vedevi con mamma e papà. Alla tv inglese passavano alcuni artisti americani, tipo Sonny Terry e Brownie McGhee, in spettacoli gospel e blues. Oggi, quando si fanno ricerche, è questo il materiale che riaffiora. Sister Rosetta Tharpe, Memphis Slim, Lena Horne. E Big Bill Broonzy. Portati qui dagli appassionati di jazz tradizionale, musicisti skiffle come Lonnie Donegan».

Poi fu James Brown a farti impazzire. Ricordo che la sua guardarobiera, Miss Sanders, si preoccupava di "Mick, quel ragazzino scheletrico" che bazzicava l'Apollo.

«Adoro fare l'intrattenitore. Gli artisti che mi piacevano durante l'adolescenza, quelli che cantavano, ballavano e facevano casino, erano elettrizzanti. Con James Brown non contava solo il ballo, ma tutto l'insieme, compreso il gruppo che suonava. C'era la musica, asciutta e compatta. Poi c'era il pubblico intorno a te, con casalinghe che fumavano erba di pomeriggio. Lo spettacolo non si limitava all'artista, ma si estendeva al pubblico. La sua reazione era sempre interessante: sembrava di trovarsi in chiesa, in un certo senso».

Ti sorprese l'arretratezza razziale in America, quando la visitasti con i Rolling Stones?

«Girare il Sud per la prima volta fu scioccante. Andammo in tour con Patti LaBelle e i Vibrations: facevano acrobazie sul palco, qualcosa di grandioso. Quando viaggiammo con loro, in uno dei nostri primi aerei a nolo, ci accorgemmo che non potevano entrare in certi posti. Loro ci scherzavano su, ma non c'era da ridere. Avevo delle guardie del corpo, neri ex Fbi, ci fermavamo a un autogrill e loro venivano regolarmente sbattuti fuori. Io chiedevo: "Andreste a prendermi un panino, per favore?", e questo non era consentito».

Spostiamoci al 1967. Quale fu la tua reazione quando uscì una rivista chiamata Rolling Stone?

«Nel 1967 eravamo già famosi. Lo prendemmo come un complimento, ma si creò anche una certa confusione, perché la gente pensava che quel nome fosse di nostra proprietà, o che avessimo qualche legame con la rivista. Naturalmente, ben presto cambiarono idea».

Come ti sembrò il modo in cui RS illustrò l'omicidio di un ragazzo nero per mano di un Hell's Angel al vostro live di Altamont nel 1969?

«Onestamente, fu spiacevole. All'interno della comunità di San Francisco c'era la sensazione che quel genere di evento traumatico non sarebbe dovuto accadere proprio là. Non scordarti che Rolling Stone allora si considerava essenzialmente una rivista di San Francisco. Naturalmente noi dovemmo assumerci la nostra fetta di colpa, ma non fummo gli unici responsabili».

Gli anni 60, quando gli Stones divennero superstar, furono straordinari, in particolare per l'America. Con una simile posizione privilegiata, perché questa tua riluttanza a guardarti indietro?

«Ci furono enormi cambiamenti, è innegabile. Hai letto il libro Postwar, di Tony Judt? Un mattone, ma è illuminante, soprattutto da una prospettiva storica. Naturalmente, gli anni 60 furono importanti ma, in retrospettiva, quali furono i pro e i contro? La questione resta aperta a discussioni senza fine, da un punto di vista filosofico, morale, artistico/popolare o musicale. Ci sono così tanti fattori...».

Che mi dici delle influenze di questa nuova musica, il rock, sul lessico popolare? Non è diventata essa stessa una vera forma culturale?

«La cultura popolare e il r&r sono diventati uno strumento di comunicazione piuttosto sbrigativo. La gente cita versi di canzoni come un tempo faceva con la poesia, Shakespeare, o la Bibbia. O Lincoln».

Allora concentriamoci sul nesso artistico/popolare. In quel periodo diverse discipline iniziarono a interagire. Andy Warhol realizzò la copertina di Sticky Fingers. Count Basie suonò alla festa per il tuo 29esimo compleanno per ospiti che andavano da Diana Vreeland di Vogue a Woody Allen, fino all'evangelista Marjoe. C'era anche Bob Dylan, che pronunciò la celebre frase: «È l'inizio della coscienza cosmica». Cosa si provava all'interno di quell'universo abbagliante?

«I mondi dell'arte, della musica e della moda furono felici di incontrarsi. C'erano un mucchio di salotti. Il critico teatrale Ken Tynan e sua moglie Kathleen davano ricevimenti molto belli e non sapevi mai chi ci avresti incontrato. Magari eri l'unico cantante rock a casa di Ken, ma magari c'erano un commediografo e un cineasta. Io per loro ero qualcosa di esotico, ma lo erano anche tutti loro per me. Comprese le donne».

Dunque concordi sul fatto che fosse una commistione piuttosto fuori dall'ordinario?

«Certo, quel genere di eventi non era così comune nel decennio precedente. Accelerò molte cose. E, a causa di tutte queste intersezioni, la gente si mescolò. Fu stimolante. Mi faceva pensare a tante cose diverse, meglio e più creativamente che se fossi rimasto nella mia casella, quella del cantante rock».

C'è qualcosa che ti fa ricordare volentieri quei tempi?

«Penso agli effetti dei Beatles e di tutti gli altri gruppi sulla scena musicale. Ho scritto un soggetto per un film di Martin Scorsese, intitolato The Long Play. Parla dell'industria musicale. La struttura della musica popolare americana fu temporaneamente sconvolta da questa invasione. Prima sembrava di essere in un'altra era, come se fossimo ancora negli anni 30».

Stai parlando del meccanismo di produzione e di vendita dei dischi?

«Sì, e di come venivano divisi i profitti. Immagina io sia Frankie Avalon e qualcun altro l'autore. Il 50% dei proventi della composizione andava a un editore che poi vendeva a me, Frankie Avalon, la canzone. Io sceglievo la canzone con il mio impresario, o arrangiatore, o casa discografica: insomma, un sacco di persone. Poi entravamo in studio e c'era una big band, un'orchestra, un produttore e un addetto stampa. Io, Frankie Avalon, cantavo il brano e gli altri decidevano che fare».

Cosa fu a cambiare le cose tanto drasticamente?

«Arrivarono i Beatles e altri come loro. D'un tratto scomparvero arrangiatore, compositore, editore, addetto stampa. C'era un'etichetta discografica, ma i dirigenti stavano lì a chiedersi che fare, perché di loro non c'era bisogno. Si dovevano occupare solo di promozione e distribuzione. Dunque tutta questa pletora di funzioni fu stravolta da un giorno all'altro».

Stai dicendo che il primato del gruppo autosufficiente, dagli Stones ai Beatles, fu un fattore decisivo nella trasformazione dell'industria musicale?

«Il fattore "gruppo" fu di enorme importanza. L'autosufficienza cambiò completamente il modello finanziario della faccenda. Tutti quei compositori, arrangiatori, direttori d'orchestra e musicisti furono minacciati dal mutamento. Elvis non aveva mai scritto una canzone, così come Frank Sinatra».

In conclusione, chi ha beneficiato del cambio?

«I Beatles guadagnarono una fortuna. D'un tratto c'erano artisti a scrivere canzoni e ricavare denaro da composizione, pubblicazione e album».

Ma gli uomini dell'industria discografica è difficile che restino a guardare gli artisti comandare...

«Le case discografiche si trasformarono in enormi multinazionali. Le etichette furono tutte comprate da grandi gruppi. Diventarono meno indipendenti, guarda il caso dell'Atlantic venduta alla Warner Bros. Di conseguenza, in studio si vedevano sempre meno persone alla Ertegün (mitico fondatore dell'Atlantic, ndr)».

Dirigenti e compagnie cambiano, ma gli enormi mutamenti tecnologici restano. Come hai fatto ad adattarti?

«Preparo tuttora le scalette per i cd. I miei collaboratori dicono: "Be', questo pezzo non dovrebbe stare lì". E io replico: "Non prenderti nemmeno la briga di discuterne, perché nessuno ascolta più la musica in quel modo". La tecnologia nell'industria discografica è cambiata costantemente. Io ho cominciato con i 78 giri, ben presto non ce ne furono più e dovetti andare a comprare i 45. Nei giorni d'oro dei 45 potevi impilarli tutti nel jukebox e se non te ne piaceva qualcuno, bastava premere un bottone e veniva giù il disco successivo. Ero volubile come i ragazzini d'oggi che ascoltano un minuto di un brano in cd o mp3. Wear My Ring Around Your Neck di Elvis arrivava a stento a due minuti. Lo ricordo bene: 2:15. Mi basta e avanza».

Tuttavia, se la tecnologia è cambiata, alcuni temi restano. Se prendi canzoni come Gimme Shelter e Undercover of the Night e le riporti agli avvenimenti mondiali di oggi, pare che tu avessi immaginato la colonna sonora per il terrore contemporaneo già molti anni fa.

«Sì, siamo passati dalla rabbia degli anni 60 al terrore. Ma nel terrore c'è sempre molta rabbia. Politica e terrore non sono temi facili su cui lavorare. Se il ritmo funziona, ma i testi non sono all'altezza, il pezzo può suonare puerile e triviale. È un equilibrio delicatissimo. Il problema con la musica rock è che tende a volgarizzare le cose, se non vi si presta attenzione. Personalmente trovo molto più facile scrivere canzoni d'amore che pezzi sui tempi di oggi».

Ma nel vostro ultimo album, A Bigger Bang, hai lanciato una piccola molotov.

«Sweet Neocon. In effetti penso che l'attacco sia cattivello. Ho scritto quel pezzo all'inizio della guerra in Iraq. George Bush si era spinto un po' troppo in là, era tutto così palesemente sbagliato che pensavi: "Come può qualcuno appoggiarlo?". Tutta quella mescolanza di teoria democratica con una bella dose di fervore evangelico mi pareva completamente fuori dalla realtà».

Che ne diresti di scrivere della vita e dei tempi di Mick Jagger? Non sarebbe ora?

«Realizzare un'autobiografia sarebbe uno spasso. Una volta mi fu offerta una grossa somma, il che costituì una bella tentazione, e così iniziai a scrivere. Una noia mortale. Me ne stavo seduto con un giornalista come te, parlando all'infinito di questo famoso passato, vivendoci dentro e mi sembrò piuttosto ottuso. Farlo da solo, seduto di fronte al mio portatile? Be', per ora non se ne parla. Mi piacerebbe trovare un'altra forma. Non la consueta autobiografia della gente di spettacolo, che costituisce un genere a parte».

Si potrebbe obiettare che Bob Dylan abbia sconvolto e reinventato quel genere con Chronicles.

«Sì, l'ha fatto molto bene. Una parte del libro era decisamente mistificatoria (ride). C'erano passi meravigliosi, tipo quando descrive come si costruì un tavolo nel suo primo appartamento al Greenwich Village. Io non riesco neppure a ricordare il mio primo appartamento, figuriamoci l'arredamento...».

 

 

Alcuni giorni fa dovevo chiamare Michele al cellulare , allora , conoscendo la sua abituale parlantina da fiume Colorado nel periodo della piena , ho chiamato il 4916 , - il suo credito è di 29,60 euro – mi ha informato la vocina , “ Forse ce la faccio “ mi son detto prima di fare il numero.

Dopo gli argomenti tecnici e di varia umanità siamo venuti a parlare della Fattoria e gli ho chiesto speranzoso “ Cosa ne dici se ti intervisto per i lettori ? “ . “ Và bene comincia “ mi ha risposto .

E’ chiaro che i miei 29,60 euri sono andati in fanteria , ma fa niente , ne valeva la pena !!!!!!!!!

L’intervista a Michele “Napoleon in rags” Murino

1) Ciao Michele , prima
di ogni altra cosa , perchè hai scelto “Napoleon in rags” come tuo nome
“dylaniano” ?


Mah... Innanzitutto lasciami dire: "'Azzo, intervistato
da MF e soprattutto dal grande Mr. Tambourine (ah, se solo si sapesse
chi sei davvero, tutti si renderebbero conto nelle mani di che grande
uomo - o donna? - sono i dylaniani d'Italia... Maybe someday...)." Ma
veniamo alla tua domanda... Quando ascoltavo le prime volte Like a
rolling stone, al punto in cui quel
bastardo di Dylan cantava: "You
used to be so amused / At Napoleon in rags and the language that he
used / Go to him now, he calls you, you can't refuse..." io sapevo che
stava parlando di me. Non so spiegarlo ma quello ero io, evidentemente
Dylan mi aveva conosciuto e io non lo sapevo, una roba paranormale ma è
così. Quindi la scelta non c'è nemmeno stata in effetti. Io SONO
Napoleon in rags... O meglio ero, visto che sono morto, cioè che è
morto, sì insomma avete capito... dead and gone...

2) Sò che prima di
sentire e amare Dylan eri un Beatlesiano , di Michele-Dylan sappiamo
quasi tutto , e di Michele-Beatles che mi dici ?


Infatti, i Beatles
sono il primo amore. E lo sono ancora ora ovviamente. Quindi non "ero"
un beatlesiano. Ma "sono" un beatlesiano. Credo che, con Dylan, i
Beatles siano stati la massima espressione nel loro campo, non tanto
George o Ringo, per me. Parlo di McCartney e Lennon che ritengo, e lo
ritiene anche Dylan non a caso (lo ha dichiarato in una recente
intervista)
assolutamente irraggiungibili, ineguagliabili,
incomparabili con chiunque, Dylan compreso. Album come Revolver, Rubber
Soul, Sgt. Pepper, ma anche moltissime delle prime cose sono qualcosa
di... come dire... hai presente la citazione cinematografica "ho visto
cose che voi umani..."? Credo che Dylan debba moltissimo ai Beatles.
Così come a Roger McGuinn. E i Beatles devono molto a Bob ovviamente.
Non so chi debba di più all'altro... Credo che nessun artista rock
potrà mai raggiungere le vette di Lennon e McCartney... Dylan c'è
riuscito in altra maniera ma come L/M credo non ne siano mai nati e mai
ne nasceranno... Forse solo Battisti ma è difficile parlare di Lucio in
questo senso perchè è nato in Italia. Fosse stato di lingua
inglese...
Io credo che tra cinquecento anni i giganti della musica della nostra
epoca saranno considerati ancora McCartney e Lennon...

3) Avresti mai
fatto un sito Beatlesiano , magari chiamato “ Strawberry fields “ ?


Credo di no. Per vari motivi. I Beatles mi interessavano quanto Bob ma
su di loro si erano sprecati fiumi di "inchiostro" anche sul Web.
Quello su Dylan l'ho fatto perchè non c'era praticamente niente in rete
su di lui in Italia. Comunque l'avessi fatto l'avrei chiamato magari
davvero "Strawberry fields"... ottima idea... perchè non lo fai tu?...

4) Spiegaci la grande differenza fra Dylan e Beatles , non importa se
ti dilunghi , è sempre bello leggere quello che scrivi tu .


Kaspiterina! Una domandina da niente! Comprate il mio nuovo libro "Bob
Dylan Percorsi Vol. 2 - Dylan and friends" e lo saprete...
Comunque al
di là di un discorso critico e storico, almeno per me non c'è una
grande differenza tra Dylan e Beatles... Forse solo che uno è americano
e gli altri inglesi... Ma per il resto la lingua e la stessa... La
categoria pure... La pasta anche... Molte delle radici musicali
comuni... E quello che hanno fatto è sotto gli occhi di tutti e li
accomuna nella grandezza... Forse l'unica differenza è che Lennon aveva
bisogno di McCartney e McCartney aveva bisogno di Lennon. Dylan si
bastava da solo. Forse Paul e John non sarebbero stati così grandi da
soli, ma non abbiamo la controprova...

5) Dylan e la Fattoria ti hanno
dato tanto , tanto lavoro e penso tonnellate di soddisfazioni , potrai
mai dimenticare tutto questo o resterà una specie di marchio a fuoco
inciso sul tuo cuore ?


Dunque... innanzi tutto quello xxx di Dylan non
mi ha mai dato niente... :o) La sua musica sì, e le soddisfazioni di
cui parli certo la Fattoria le dà... ma perchè parli al passato...? Le
soddisfazioni più grandi ovviamente l'interesse e l'affetto dei lettori
e anche di quelli speciali ed eminenti... Pensa che sta per uscire
"Parole nel vento" il volume curato da Carrera con la collaborazione
anche del sottoscritto... Ecco, quella è una soddisfazione... 'Azzo,
collaborare ad un libro con Alessandro Carrera!!!! E' un po' come per
Bruscolotti giocare nel Napoli di Maradona. Ora spero che anche Paolo
Vites mi chieda di collaborare ad un suo libro... su Dylan però eh!?
Comunque come sarebbe se potrò mai dimenticare? Uno al limite può
riuscire a dimenticare una cosa se proprio lo vuole... Ma io perchè
dovrei volerlo?

6) Tu mi hai chiamato al timone della Fattoria , la
cosa mi ha colmato d’orgoglio , che ne pensi dell’idea di rimanere

anonimo dietro il nome di Mr.Tambourine ?

Yeah! Quella è una grande
figata perchè dà mistero alla cosa... Mistero uguale interesse...
Speculazioni, illazioni, ipotesi... Così tutti ti seguiranno anche solo
per capire chi cazpita sei... Grande mossa my friend!!! Ci avessi
pensato io all'epoca... Sarei stato solo Napoleon in rags... Pensa che
bello andare ai concerti e parlare di MF con la gente senza che gli
ignari sapessero di parlare con Napoleon... Questo tu ora lo puoi
fare... Al primo concerto parla con la gente che conosce MF e comincia
a dire cose tipo: "Ma questo Mr. Tambourine fa veramente cagare..."
oppure "Certo che questo Mr. Tambourine è veramente un grande... mica
quell'imbecille di Napoleon in rags..." e poi osserva la reazione...
Istiga, stimola, incita, provoca... Avrai il polso della situazione in
prima persona... Che figata! Avessi potuto farlo io! Comunque credo che
a lungo andare ti faranno tana... ti sgameranno perchè non è facile
riuscire a tenere segreta una cosa così... hai già fatto qualche errore
finora che ha fornito
indizi... e chi legge attentamente può arrivare
a capire chi si cela dietro il tamburino...

7) Tutti vorrebbero sapere
il perchè del tuo abbandono , chi per affetto e chi solo per curiosità
, ma io non te l’ho chiesto per un motivo etico , le cose tue sono tue
e le cose mie sono mie , dimmi le sensazioni che provi ora quando entri
alla Fattoria come un comune visitatore .


La cosa che mi fa ridere è
leggere lettere che parlano di Napoleon come fosse Dylan... Sembra che
l'evento sia paragonabile al ritiro di Dylan dalle scene... Ma suvvia,
suvvia, suvvia... Non è che si sta un tantinello esagerando, ed
eziandio dando troppa importanza al sottoscritto? Comunque davvero
tutti vorrebbero sapere il perchè del mio abbandono? Non "chi siamo, da
dove veniamo e dove andiamo?" Solo quello? Allora dirò che la colpa è
di Anna "Duck"...

8) Tu mi hai dato carta bianca per tutto quello che
riguarda il proseguimento della Fattoria , sapendo che potevo sbagliare
diverse cose e danneggiarla in qualche modo se pur involontariamente ,
questo è stato uno stimolo e un punto d’orgoglio per me , ma il punto
non è questo , il punto è che , non ostante il tuo satirico annuncio di
scomparsa sarai sempre l’anima della fattoria , te ne rendi conto che
non potrai mai distaccarti da lei ?


Ah, beh, ma perchè chi ha detto
che mi sono distaccato? Mi rendo conto di essere l'anima, anche perchè
essendo morto posso essere solo anima... Quindi per risponderti, non mi
distacco. Tu comunque errori non ne puoi fare nè danneggiare MF... se
non ci sono riuscito io non ci riuscirai nemmeno tu... Comunque
cancella quel "carta bianca" che mi fai venire in mente un film di Totò
con Walter Pidgeon e non è il caso, credimi...

9) Se in futuro dovesse
capitarti la fortuna di incontrare Bobby , la prima parola a freddo ?

Non lo so. O "Grazie di esistere" o "Vaffanculo". Una delle due.

10) per chiudere , tornerai ?

E' l'attuale curatore di Maggie's Farm...
che non mi farà tornare! Già, perchè Mr. Tambourine diventerà talmente
amato che un giorno si dirà: "Michele Murino chi?", "Quale Napoleon in
rags?", un po' come oggi si dice, chessò: "Pete Best? E chi è?"
Comunque se tornerò, tornerò come un ladro nella notte... Be ready, for
you know not the hour in which I come...
Allora grazie per
l'intervista, e grazie a tutti i magfarmiani, tranne ad una (she knows
who she is...)

ps: ehm, Tamb, dì la verità si vede troppo la
pubblicità ai miei libri in questa intervista?...

Direi di no , ma i tuoi libri sono così interessanti che se anche calchi un pò la mano va bene , allora un grazie da me e da tutti i Maggiesfarmers.

Mr. Tambourine

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