MAGGIE'S FARM

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Poeta o Buffone, chi è veramente Dylan?

 
Mi sono sempre chiesto cosa avevano in più, o forse di diverso dagli altri, personaggi come Leonardo, Michelangelo, Giotto, Papa Giulio II, Dante, oppure Caravaggio a.k.a. Michelangelo Merisi, ma la risposta non l’ho ancora trovata, continua ad essere portata via dal vento senza la possibilità di essere ascoltata (se mai ce ne fosse una). Posso solo dire che “avevano”, si, ma cosa avevano? Il dono che il Creatore elargisce a pochissimi uomini ogni 500/1000 anni, forse per fare in modo che il mondo degli esseri comuni progredisca sul cammino della conoscenza e del divenire. Che aveva Caravaggio più degli altri, più di quelli che l’avevano preceduto o più di quelli che l’hanno seguito? Io non saprei spiegarvelo chiaramente e nemmeno confusamente, ma basta che guardiate un suo quadro per capire che il Sig. Merisi era uno di quelli che faceva la differenza. Lo stesso discorso vale per gli altri sopra citati, Leonardo, Michelangelo, il Sommo ed ineguagliabile talento visionario e poetico di Messer Dante fiorentino, la costanza e la lungimiranza di Giulio II (ed anche la ricchezza) che lo fanno diventare un artista del pensiero, della volontà, della straordinaria capacità di far uscire dalle mani di Michelangelo il “giudizio universale” costringendolo alla giornaliera tortura del confronto con se stesso. Potrei citare almeno un altro centinaio di persone che hanno vissuto costantemente al “piano di sopra”, ma non servirebbe, quelli già citati sopra bastano ed avanzano rendendo perfettamente l’idea.

La stessa domanda me la son dovuta porre per Bob Dylan, perchè lui è il “più”, l’inavvicinabile, l’imperscrutabile, il così difficile da analizzare, il così difficile da capire, da interpretare, da paragonare, da commentare, insomma, così “impossibile”, come se avesse fatto un patto terribile con qualcuno per essere sempre ammirato, invidiato e mai veramente capito.
Che c’è da capire in Bob? Sembra una domanda da niente....Joan Baez dichiarò molti anni fa –“Bob vive su un pianeta tutto suo che non è fatto per quelli come noi, inutile chiedersi il perchè, è così e basta”- . Detto da Joan è una cosa che perlomeno da motivo per pensare.
Però, riflettendoci sopra per bene, sono quasi cinquant’anni che persone di tutti i tipi, di tutte le culture, di tutte le estradizioni, dicono la loro “verità” su Bob senza mai azzeccarci. Fiumi e mari di inchiostro, una considerevole parte della foresta amazzonica abbattuta e trasformata in carta per scrivere le più strambe assurdità su Bob.
Già, son proprio tanti, forse troppi, alcuni hanno scritto cose carine e credibili, aderenti alla realtà, con una logica più che credibile, anzi, a volte più che apprezzabile, ma questo non dice se quello che abbiamo letto sia stata la verità o solo l’impressione di chi stava scrivendo quelle parole.

Ok, dato per accettato che Dylan è un genio del suo secolo, la domanda che si fanno da anni ed annorum i fans, i critici, gli esperti, i dylanologi, i saggi, i colleghi, gli scrittori, i sociologi, ed ogni altra categoria che la fantasia umana può classificare, resta sempre quella, “Chi è veramente Bob Dylan?
Innanzitutto chiederò scusa al carissimo Alessandro Carrera perchè prenderò infiniti spunti dalle sue parole e dal suo dylan-pensiero per cercare di dipanare un pò questa intrigata matassa chiamata Bob Dylan.

Prima distinzione, Bob è un musicista o un poeta? Ha senso parlare di Dylan come di un poeta?
Naturalmente, ma dobbiamo intenderci sul significato delle due parole. Dylan non è un poeta nel senso lessicale del termine, per il fatto evidente che scrive canzoni e non poesie, quindi non ci sarebbe niente di terribile nell’affermare che Dylan non è un poeta. È come dire che Verdi non è un compositore di sinfonie. La canzone è un genere a sé, una forma d’arte distinta dalla poesia ma non necessariamente meno nobile, così come l’opera lirica non è meno nobile della sinfonia. Non tutti gli autori di canzoni possono assumere il doppio ruolo di musicista e poeta, ma per Dylan questo è stato perfettamente normale, anche se la sua poesia è una conseguenza diretta delle sue canzoni e del suo linguaggio, e forse per questo, Dylan merita più di chiunque altro cantautore, l’appellativo o il titolo di “Poeta”.


C’è anche un altro argomento da mettere in evidenza, ed è quello di cercare di inserire la “poesia” in altre forme artistiche non solitamente deputate alla poesia. Il poetico non è la poesia, non è una forma definita. Il poetico (nel senso greco di poiesis è lo spirito che esprime un’opera). Da questo punto di vista Dylan, è più poeta di molti poeti ufficialmente riconosciuti come tali ed orgogliosi del loro titolo. Nelle sue canzoni circola, oltre alla musica , più idee poetiche di quelle che si possono trovare nelle poesie di molti poeti ufficialmente riconosciuti come tali. Una volta Larry Sloman fece a Dylan questa domanda: “Non sei veramente un musicista, non sei veramente un cantante, non sei veramente un poeta, e allora chi sei?”, Dylan rispose: “Sono solo un artista”.
Non c’è bisogno di aggiungere altro, ma in realtà Dylan è soprattutto un crooner. Le sue canzoni più belle raccontano tutte una storia, allegra o triste, drammatica o ridicola, seriosa o filastrocca, anche quando non ci sono veri personaggi attori che vivono e ci fanno visualizzare la storia delle canzone, anche quando la canzone vive delle sole parole del testo.

In “Jokerman” Dylan parla di alcuni dei suoi maestri ispiratori: la misteriosa legge della giungla e del mare e il Libro del Levitico e del Deuteronomio. Si può credergli o forse sono solo buffonate? E se è tutto vero, cosa vuol dire esattamente?

“Jokerman” è uno strano tizio, sostanzialmente un giullare, ma in realtà è molto di più. Nell’universo poetico di Dylan, Jokerman è la momentanea e ripetuta incarnazione di un personaggio che, vivendo e muovendosi attraverso la fantasia del suo autore, era già apparso nelle sue canzoni sotto altre forme e con altri nomi: Mr. Tambourine Man, Quinn the Eskimo, Señor, Lenny Bruce, o centinaia d’altri che temporaneamente recitano per noi un ruolo nei testi di Dylan, come se fossero i brani di un’opera spezzettata in mille parti che però, una volta riunuite tutte insieme, riaquistano il loro senso totale, dando la misura della grandezza del loro autore. Sono tutte rappresentazioni diverse del “trickster”, del dio burlone e amorale che nelle varie mitologie prende nomi diversi, da Thot, Hermes, Mercurio, Loge, Duende o Coyote (quest’ultimo nelle cosmogonie amerindie). Per assurdo “Jokerman” potrebbe essere anche una manifestazione dello stesso Gesù Cristo, soprattutto nel suo senso più “umoristico” (Gesù come sovvertitore totale ed ironico delle usanze e dei costumi fino allora esistenti, uno dei primi “bacchettatori” della società ad essere diventato universalmente conosciuto). In poesia, una simile figura è garanzia di comunicazione intensa e scambio relazionale con il mondo dell’ispirazione. Jokerman è il “doppione” mitizzato del poeta, del musicista, è la figura che diventa più potente della coscienza, quella oscienza che mette in comunicazione l’inconscio del poeta con il simbolico repertorio elaborato dall’umanità a partire dalla creazione del mondo. Le buffonate di Jokerman sono sostanzialmente buffonate, ma sono burle molto serie. Hanno certamente a che fare con le primordiali leggi della giungla o del mare (ricettacoli di archetipi), così come anche con i primi libri della Bibbia, perché questi scritti sono depositi di antica saggezza, ancestrali stesure dei “diritti dell’uomo. Ed è da lì che nascono i temi delle ballate popolari, che in Dylan ri-raccolgono l’unica vera saggezza elaborata dai popoli.

La Bibbia, grande codice della cultura occidentale, come scrive Frye (pensiamo alla versione di King James e la sua influenza negli USA), quanto ha influenzato Dylan?

L’importanza della Bibbia è così immensa e vasta in Dylan che non si può nemmeno più parlare di influenza quanto di “fusione” in essa. Potrebbe essere che a volte Dylan si possa sentire come “that little Jew who wrote the Bible”, per citare un verso di Leonard Cohen: “quel piccolo ebreo che scrisse la Bibbia”, nel senso che un libro sacro viene prima scritto e poi continuamente riscritto, perché la sua origine non è certificabile e quindi non può avere un “autore” definito.


Ci sono senz’altro delle differenze tra le varie fasi attraversate dalla personalità “Bob Dylan” se rapportate alla Bibbia. Nei primi anni Sessanta Dylan ha usato la Bibbia come supporto per un linguaggio poetico che non maneggiava ancora con la necessaria padronanza, come uno spaesato principiante che stava cominciando a formare le proprie opinioni. Dylan crede nella Bibbia, non come testo “sacro ed inviolabile”, ma come si può credere a una grande opera di poesia della quale non si possa fare a meno. Solo pochi anni dopo (nel 1968, all’epoca di “John Wesley Harding”), che è un album ripieno e farcito di riferimenti biblici, Dylan utilizza la Bibbia principalmente come fonte letteraria, proprio come un grande codice della letteratura occidentale. La Bibbia verrà poi usata in senso molto più dottrinale nel cosiddetto periodo cristiano, 1979-1981. I testi di molte canzoni saranno composti quasi unicamente di citazioni bibliche. Il “poetico” tipicamente dylaniano che avevamo imparato a conoscere fino ad allora verrà quasi dimenticato, e in certi casi finirà per sparire del tutto. Si può anche dire che questa è stata un’esperienza comune a molti poeti che hanno subito un processo di revisione della propria morale in senso religioso. Davanti alla evidente “rivelazione” appena ricevuta, la poesia con le sue egoistiche pretese sembra diventare all’improvviso irrilevante. Il convertito ha cose “più serie” da dire che non scrivere belle poesie o belle canzoni, sente di avere un “messaggio da diffondere e rivelare, e lo farà usando i suoi abituali mezzi di espressione e di comunicazione dopo averne apportate le modifiche necessarie. Rischia dunque di diventare la negazione della poesia e odell’arte, per non dire più brutto e noioso che altro 8solo un altro predicatore), perché deve, per forza di cose, distanziarsi il più possibile da ciò che era prima della conversione, sarà un allontanamento volontario e dovuto, senza una scadenza certa o prevista, tutto verrà dal signore e tutto verrà fatto secondo la sua volontà. In alcuni casi smetterà del tutto di scrivere o di comporre, ed il recupero della dimensione poetica diventerà poi lunga e faticosa, e spesso il risultato di un compromesso necessario per andare avanti un altro pò. Due esempi molto diversi: Clemente Rebora, importante poeta del primo Novecento italiano, smette di scrivere poesie dopo la sua ordinazione a sacerdote, e ricomincia a scrivere qualcosa di significativo solo molti anni dopo. Cat Stevens, con un suo seguito fedele ancora oggi, smette completamente di comporre canzoni dopo la sua conversione all’islamismo. Nel caso di Dylan, il periodo strettamente dottrinale è durato poco. Con gli anni, il suo atteggiamento verso la Bibbia tornerà ad essere quello più aperto come era alle origini: La Bibbia tornerà ad essere il Grande Libro al quale si deve credere perché tutti gli artisti popolari che hanno ispirato Dylan e che lui ha ama ed ammirato vi hanno creduto.

Sarebbe quindi possibile affermare che c’è un filo conduttore in tutta l’opera dylaniana, da Blowin' in the wind fino all'ultimo album?
Prendiamo ad esempio una canzone "recente" come Dignity nella quale Dylan usa l'espressione "parlare le lingue degli uomini e degli angeli" che è presa di forza dall'Inno alla Carità di San Paolo (1 Cor 13,1). Il DNA del suo lingaggio è ancora di matrice religiosa?

Dylan è sostanzialmente un artista che nella religione (qualunque essa sia) trova ispirazione, conforto o tormento. Dylan è essenzialmente un artista-predicatore, un moralista-ciarlatano, un serissimo buffone e un apocalittico che si esprime buffamente. È molto difficile separare, nel suo pensiero, l’umiltà nei confronti della sua ispirazione dall’arroganza con la quale pretende che il mondo stia ad ascoltare le sue enunciazioni anche quando hanno poco o nessun senso. Da questo punto di vista non è molto dissimile da un altro grande insopportabile moralista ciarlatano che si chiamava Pasolini. Il paragone è complesso e bizzarro, non può essere spinto troppo oltre e avrebbe bisogno di molti commenti e spiegazioni. Limitiamoci qui a dire che Dylan è un artista religioso, ma, alla resa dei conti, è soprattutto un artista, e se costretto a scegliere tra la sottomissione a Dio e la sottomissione alla sua scapestrata ispirazione, non ha dubbi su cosa sciegliere, Robert Zimmerman scieglierà sempre il suo alter ego chiamato Bob Dylan, a dispetto di tutte le divinità, in questo il suo egocentrismo spinge al limite della sopportazione la sua arroganza nel credere solo in se stesso e nelle sue idee, che Dylan, pur ammettendone l’ispirazione, considererà sempre sopra la Bibbia o qualunque altro artista, lui dirà sempre che la sua ispirazione è una cosa e la sua arte un’altra.

Ma oltre se stesso e la Bibbia quali sono state le sue fonti alternative? La poesia, la narrativa? C'è chi ci ha trovato Rimbaud e Whitman, chi Ginsberg e Kerouac. Altro grosso enigma del monumento Dylan: ma è colto o è un emerito ignorante?

Sicuramente Dylan ha letto molto e di tutto, ma soprattutto ha saputo ascoltare, i vecchi bluesmen, i cantanti di ballads, gli appalachiani menestrelli popolari, i folksingers che conobbe nei suoi primi anni passati a New York, al Village e al Folk Festival di Newport. La sua vera fonte, che ridimensiona l’ importanza di tutte le altre, è la musica del popolo americano, nelle sue origini più inglesi, irlandesi, africane e centroamericane. Questa e l’unica materia dove lui è insuperabilmente competente, e va a suo grandissimo merito il fatto di averla preso nel più serio dei modi, di avere intuito che nella musica popolare americana si nascondeva un intero cosmo da scoprire, un intero sistema di sapere ed analizzare. Quando Dylan dichiara, nell’introduzione alla raccolta di tributi a Jimmy Rodgers da lui curata nel 1997, che il “ferroviere canterino” che aveva reso la country music un fenomeno di massa negli anni Trenta, è “una delle luci che illuminano il secolo”, si potrebbe anche pensare che l’amore per la musica popolare gli abbia dato di volta al cervello, ma se poi si pensa che in realtà sono stati artisti alla “Jimmy Rodgers” a cambiare il modo in cui la musica è percepita ed assprbita in almeno in buona metà del mondo, allora si capisce che Dylan è esagerato solo in apparenza.

E tutti quei poeti e scrittori ai quali abbiamo accennato ? Rimbaud, Ginsberg, Kerouac?

Certo, per chi non ha tanta dimestichezza con le fonti popolari dylaniane, Bob è principalmente colui che ha saputo unire Rimbaud e la pop art, mischiare T.S. Eliot e D. H. Lawrence con la canzone da inserire nei jukebox. Il che porta naturalmente alla domanda: quale sono state le sue reali influenze letterarie? Da un lato c’è la schiera dei poeti e degli scrittori che ha letto da ragazzo: Steinbeck (citato in “Sad-Eyed Lady of the Lowlands”), Kerouac (Dylan rende esplicito omaggio a Kerouac in due canzoni: “Visions of Johanna” che deriva da “Visions of Cody” e “Desolation Row” che deriva da “Desolation Angels”), Ginsberg (”It’s Alright, Ma” che è forse la sua canzone più ginsberghiana), F.S. Fitzgerald (citato in “Ballad of a Thin Man”, T.S. Eliot ed Ezra Pound (citati in “Desolation Row”), E.E.Cummings (il primo verso di “A Hard Rain” potrebbe essere ispirato tanto alla ballata inglese “Lord Randal” quanto a una poesia di Cummings su Buffalo Bill), l’autobiografia di Woody Guthrie (il libro che ha letteralmente “generato” il personaggio Bob Dylan), e soprattutto Rimbaud, che rimane un modello di stile dal 1962 di “A Hard Rain’s A-Gonna Fall” fino a “Where Are You Tonight?” del 1978. Altre influenze letterarie diventano più difficili da cogliere ma non impossibili, e anche più occasionali (Joseph Conrad in “Black Diamond Bay”, W.B. Yeats in “Angelina”, ecc.). Di solito si limitano ad un verso o una frase collocata qua e là giusto perché suonava bene. C’è poi il caso ad esempio delle “Confessioni di uno Jakuza”, il romanzo di Junichiro Saga dal quale Dylan ha preso una ventina di frasi che ha inserito, a volte letteralmente, a volte modificandole, nei testi di “Love & Theft”. Possiamo liberamente affermare che Dylan non è né uncolto né un ignorante, è semplicemente un grandissimo autodidatta. Ha frequentato l’università solo per poco tempo apprendendo poco o niente a livello di cultura e, come Dylan stesso dirà poi della sua tanto celebrata Miss Lonely di “Like a Rolling Stone”, lei non faceva altro che sbronzarsi senza capire niente del resto del mondo che la circondava, ha usato tutto quello che la circondava finchè ha potuto, per poi crollare e cadere miseramente nell’abbandono più squallido e nell’oblio di tutti. Dylan ha dunque tutta la mancanza di preparazione attribuitagli dai suoi tanti detrattori, ma anche il coraggio delle letture radicali che è tipico dell’autodidatta. Rispondendo a una domanda di diversi anni fa della rivista “Rolling Stone” (che chiedeva a vari musicisti rock quali erano le loro letture preferite), Dylan ha nominato Tolstoj, Checov, e Tacito. I primi due possono venire in mente a chiunque, ma Tacito è certamente più difficile da menzionare se non conosci niente della sua opera, perché ti venga in mente il suo nome bisogna senz’altro aver letto i suoi scritti.

A volte con Dylan sembra di giocare a nascondino. E’ proprio lui il cretese che dice che tutti i cretesi sono mentitori. E' un gran bugiardo o è sempre sincero? Prendiamo per esempio il famoso periodo cristiano? Cosa ci fu di reale in quella conversione? Cosa è rimasto di quel periodo, dal punto di vista personale e artistico? Solo tre dischi non favolosi, due o tre storie con le sue coriste, un matrimonio e una figlia. Il tutto durò poco, nemmeno tre anni in totale, un pò pèoco per una vera conversione religiosa.

O invece è un gran bugiardo e un gran ladro, ma in questo non è diverso da Fellini, che aveva fatto delle interviste menzognere una forma speciale d’arte e che come artista si rifiutava di incanalare le sue visioni in “un” significato. Fellini era cristiano o non lo era? Progressista o conservatore? Sono le stesse domande che possiamo rivolgere a noi stessi a proposito di Dylan. Ma artisti come Fellini o Dylan vanno oltre queste domande, stanno a lato, le scansano con impareggiabile maestria. Certo, non le possono ignorare, ma non possono risponde, perciò girano la fritata come piace a loro, prendere o lasciare. Il periodo cristiano ha avuto forse anche un risvolto davvero sincero, presuntamente “vero”, sunto regale di un’esperienza intensa, inattesa e sconvolgente anche e soprattutto per uno come Dylan. È stato anche un periodo nel quale Dylan si espose in maniera veramente indifesa a certe zone della way-of-thinking americana che era culturalmente impreparato ad affrontare e dalle quali non aveva mezzi per difendersi, e forse nemmeno l’ha mai voluto, principalmente perché Dylan non ha paura di nessuno e di niente (non ha paura di sbagliare, non ha paura delle critiche e nemmeno del ridicolo), a seguire poi perché senza quella immersione totale nel cristianesimo americano (anche nelle sue forme più stupide e ignoranti, ben lontane dall’intoccabile ingenuità che traspare, poniamo, dalle canzoni religiose di Hank Williams) Dylan non avrebbe potuto rinnovare la propria ispirazione e trovare nuovi stimoli poetici, letterali e soprattutto musicali. A volte viene da sospettare che Dylan, nel suo periodo cristiano, sia rimasto affascinato soprattutto dalla possibilità di fagocitare il gospel e il rhythm and blues fino a renderli parte di qualcosa di suo, della sua musica, e per far questo aveva bisogno di parole che in qualche modo suonassero bene con quel tipo di musica. A parte questa supposizione, è chiaro che quel periodo ha lasciato una traccia indelebile. Il cristianesimo di Dylan era in fondo molto ebraico, molto vetero-testamentario. La sua immagine del Cristo è quella di Michelangelo per la Cappella Sistina, il Cristo dell’Apocalisse che giudica tutti, e non il Cristo che porta un messaggio d’amore a tutti gli uomini, quasi un ribaltamento del “concetto Gesù Cristo” nella sua essenza cattolica -cristiana, un Cristo quasi giudice implacabile, più propenso a punire che a perdonare, insegnare o indirizzare. Dylan non è mai stato capace di dare un messaggio d’amore senza mescolarlo con una buona dose di amarezza e disillusione. L’ebreo errante che fondamentalmente c’è in lui, con tutta la sua carica corrosiva, alla fine prende il sopravvento su qualunque ortodossia.


Allora quale potrebbe essere la canzone che più rappresenta l’artista Dylan nella sua essenza? Quella più scopertamente autobiografica è “Ballad in Plain D”, cronaca rabbiosa e dolorosa che racconta la fine della sua storia con Suze Rotolo. È anche l’unica canzone che Dylan si sia pentito di aver inciso, e con ragione, non tanto perché non sia una bella canzone sia nella musica che nel testo che mostra eccessi lessicali che potevano tranquillamente essere tralasciati, quanto perché con questa canzone faceva venir meno la fedeltà a quel mondo sovrannaturale dei simboli e delle grandi allegorie che è poi l’unico vero mondo nel quale han senso le composizioni dylaniane. Tradisce insomma la sua vera vocazione, che non è quella di essere un poeta confessionale e autobiografico, ma al contrario un artista che trasfigura continuamente l’occasione l’autobiografica in storie esemplari ed aperte, dove ci si può identificare con l’intero partendo da un piccolo particolare qualunque. In un certo senso lo stesso errore è stato ripetuto in “Sara”. Anche in questa canzone siamo di fronte a un risultato accattivante quanto imbarazzante. Quando Dylan vuole fare il poeta confessionale manca di misura e rischia di cadere per la mancanza di senso del ridicolo, prende se stesso troppo sul serio, e soprattutto dimentica il suo grande senso compositivo.
“Idiot Wind” invece, che sembra una canzone confessionale, non lo è per niente. Come ha dichiarato lo stesso Dylan in un’intervista attorno al 1978, con “Idiot Wind”, almeno nella prima versione registrata a New York, aveva avuto paura di aver raccontato troppo di se, della sua vita privata, di aver messo i suoi affari in piazza, di essersi sbilanciato eccessivamente. Con qualche piccola modifica al testo reincise la canzone a Minneapolis, nella versione che poi è stata inclusa su “Blood On the Tracks”, ma il senso della canzone rimase immutato, perché il senso non era nel racconto della sua crisi coniugale, ma era un grande esperimento di libertà narrativa all’interno dell’arte sotto forma di canzone. Tornare sempre a quell’intervista, Dylan affermò che “Idiot Wind” nasceva dalle possibilità narrative che la prima strofa aveva lasciate aperte. E la prima strofa che comprime in poche parole la storia di un uomo che spara ad un rivale, gli porta via la donna e la conduce in Italia, e quando questa muore gli lascia un’eredità di un milione di dollari. Tutto è chiaramente un’invenzione, elaborata con il preciso scopo di fornire alla canzone un inizio talmente ricco di possibilità narrative da giustificare qualunque sviluppo successivo. Dopo una prima strofa così, “tutto” poteva succedere, e a Dylan interessa solo che “tutto” sia possibile, che a un verso ne possano seguire cento altri diversi senza cambiare il senso, e non un seguito prevedibile ed obbligato. È la stessa tecnica che aveva inconsciamente usato in “A Hard Rain”, dove ogni verso poteva essere l’inizio di una canzone diversa, metodo che poi usò volutamente in molte altre canzoni. “Time Out Of Mind” è costruito su una serie di piccole poesie fatte di un verso solo, allineate in un unico flusso e poi separate in canzoni. È un procedimento usato nel blues e nelle canzoni popolari, quelle con domanda e risposta, dove ogni verso o strofa (come negli stornelli toscani) può essere inserito in un’altra canzone senza creare una sensazione di discontinuità. In “Love and Theft”, Dylan ha ulteriormente perfezionato questo procedimento compositivo a griglia che aveva già usato in forma meno sofisticata in “Empire Burlesque” e in “Under the Red Sky”. “Empire” era pieno di citazioni da film classici hollywoodiani, “Under The Red Sky” era stato invece confezionato con un’ampia raccolta di filastrocche e canzoni infantili. In “Love & Theft” usò come sistema il sopra-citato romanzo di Junichiro Saga, e l’omogeneità delle citazioni usate costotuiva una griglia testuale compatta e omogenea, che si sviluppava in diverse canzoni così che ognuna di esse potesse continuare in un’altra.

Con lo stupendo “Modern Times”, considerato il seguito di “L&T” Dylan approfondirà questa nuova strada, quella del “crooner”, non più interprete delle proprie canzoni ma di un personaggio che narra le storie di qualcun’altro restandone sostanzialmente fuori (Workingmen blues # 2 è un grande esempio di questo stile), anche quando i testi sembrano presupporre la presenza di un protagonista della storia, ma sarà solo un’illusione dei nostalgici del Dylan per forza di cose autobiografo di se stesso, e lo dimostrerà definitivamente con l’album seguente, quel “Together Through Life” con il quale Dylan salterà il fosso, scrivendo le musiche ma affidando buona parte dei testi a Robert Hunter, così da far risultare il disco meno Dylan ed ancora più “narratore. L'album appare molto compatto già fin dal primo ascolto, un po' meno blues e r'n'r-oriented rispetto al precedente e con una dominanza un pò superiore delle ballads e delle crooner songs, o più in generale delle canzoni d'atmosfera. Anche in Modern Times non potevano mancare naturalmente alcuni riferimenti biblici. Il titolo del brano ed il verso del "trombone" fanno infatti riferimento ad Esodo, 19:16. Inutile poi sottolineare "the writing on the wall" che compare in molte canzoni di Dylan con rimandi biblici. "The art of love" è invece un probabile riferimento all'Ars Amatoria di Ovidio Anche in Spirit On The Water, brano “crooner” per eccellenza, ci sono riferimenti biblici. La prima strofa ed in particolare la frase "Darkness on the face of the deep" viene da Genesi 1:1-2 (Michele Murino). “Modern Times” non è stata però la fine della leggenda dello stile dylaniano, per niente, anzi, è stata solo una nuova pagina nell’evoluzione artistica di Bob, una leggenda nuova, l’inizio della “fourth part of the day”, che trova attualmente ancora più senso nell’esplorazione esasperata delle radici della musica popolare americana, Folk, Blues, Country, Tex-Mex, Rock e Roadhouse, eseguita così come viene, con una band (lontanissima dai fasti musicali di The Band e di Tom Petty & The Heartbreakers) nella quale anche i fuoriclasse si limitano a fare i gregari del capo, senza curarsi degli arrangiamenti, esibizioni il più possibile spontanee con musica più semplice che si possa fare, quasi una garage-band, con brani senza un preciso inizio o un finale prestabilito, quasi dimenticando le tecniche strumentali a favore delle atmosfere più sincere perchè meno pensate e costruite. Certo, con questo modo di fare Bob torna a rischiare grosso, ma ormai dovremmo aver capito tutti che il rischio è sempre stato il propellente base per la sia straordinaria carriera, farcita di Up & Down come quella di nessun’altro. Allora, chi è Dylan? Un poeta, un buffone, un plagiatore, un genio, un profeta, uno che ti prende per i fondelli? Forse tutto e forse niente, ma ormai su Bob ci sono abbastanza argomentazioni per sostenere qualunque tesi su di lui, e se anche qualcuno di noi possedesse la “verità assoluta” consegnatagli dal Padreterno in persona, troverebbe un sacco di fans in disaccordo, un sacco di fans che hanno le orecchie col filtro, che sentono solo quello che vogliono sentire, che quello che pensano loro è la sola verità assoluta, che solo loro conoscono Dylan profondamente, quelli che bla.....bla......bla....all’infinito.

Mr.Tambourine

(per le citazioni di Alessandro Carrera: http://www.railibro.rai.it/interviste.asp?id=159)